Ingiurie e silenzi

Edizioni Fermenti

PrefazioneRecensioniTratti dal libro
NOTA DI MANUELA DVIRI

“ Dopo l’ingiustizia, dopo la sconfitta, dopo la morte, quando le parole finiscono,
quando nella gola rimane solo un urlo, la poesia riesce ad esprimere le parole
dell’anima, e a rompere il silenzio.
E tu ti alzi, inghiotti l’urlo, e ricominci da capo, senza eroismi.”

PREFAZIONE DI MARIA CARMINATI

In questa raccolta, che possiamo definire un poemetto per la sua caratteristica di unitarietà di temi e di linguaggio, di scenari e di figure, due sono gli elementi che si delineano immediatamente e con chiarezza all’attenzione del lettore: il contenuto tematico, intrecciato a un bisogno profondo di aperture interetniche e di appartenenza ideale, e l’aspetto stilistico–formale che assume una veste del tutto originale rispetto al linguaggio poetico precedentemente sperimentato.

Sotto il profilo dei temi portanti, si assiste ad una adesione intensamente empatica della cultura del mondo arabo –in senso lato– e di tutti gli elementi fortemente simbolici che ne costituiscono la connotazione, all’interno dell’immaginario occidentale. In particolare, gli incontaminati e scarni scenari naturali ancora in esso conservati, il legame indissolubile tra la natura e gli uomini, il rapporto non contratto con il tempo e con la morte, insieme alla ricerca di una radice di umanità che abbiamo perduto, divengono il tono dominante dello sfondo, presente in ognuno dei settantaquattro componimenti della raccolta, capace di conferire al testo quel particolare registro espressivo, teso tra la minuta essenzialità del quotidiano e il tragico confronto con la vita, e quell’aura di magica sensualità che attraversa le percezioni dei paesaggi e delle figure che li abitano.

Dal punto di vista formale, si realizza qui una rivisitazione personale del verso libero, che pure già era praticato da Leda Palma in precedenti raccolte, e che ora viene riformulato, ma in una forma strettamente funzionale ai contenuti espressi ed ai toni poetici che si alternano tra un messaggio dichiaratamente impegnato e un sottile, penetrante sentimento di distaccata, consapevole e anche amara contemplazione esistenziale.

Si evidenzia come, sotto l’aspetto grafico, il verso –centrato nella pagina e privo del tradizionale allineamento a sinistra, a bandiera- viene rappresentato attraverso un assetto spaziale che assume funzione dinamica e anticipatrice dei significati seguenti, richiamando certi tratti della poesia visiva. Inoltre questo carattere grafico-visivo del verso viene in qualche modo a porsi come sostituto del metro tradizionale, e la formazione grafica viene ad assumere una funzione strategica nella definizione della cadenza del verso, delle sue pause e della sua andatura ritmica.

I segnali tipografici rappresentano dunque un rinvio a quelli fonici, e i versi privandosi in tutto del metro vengono declinati nelle varie forme grafiche non tanto per attenuare le valenze fonico-ritmiche, quanto piuttosto per esaltarle, seppure nella assoluta indipendenza dai moduli metrici tradizionali.

Anche qui ritroviamo l’intensa vena lirica che caratterizza la poesia di Leda Palma, espressa però attraverso ritmi addensati, incalzanti che si alternano a pause distese e lente, dove la parola sembra placarsi, volgendosi verso una sfumatura di puro accenno, di delicata allusione, spesso marcata da fugaci annotazioni di paesaggi, tracce di orme instabili appena accennate su elementi mobili, sulla sabbia o sulla superficie scarna di un wadi inciso nel deserto. Potremo dire che la sua è una parola nomade, una materializzazione verbale dello spazio geografico e dell’ambiente che viene continuamente richiamato in questo diario poetico di viaggio verso un Oriente che è insieme luogo geografico e spazio dell’anima. Uno spartito ritmico complesso, intrecciato di variazioni inattese che seguono il tono di volta in volta intenso o tenue della parola, un dispiegarsi di voce multicorde –sempre affidata al verso polimetro- che si sgrana in una variabile sonorità musicale o si attesta su un registro più uniforme e compatto, a dire gli estremi di un incontro-scontro epocale dentro una visione del mondo che non si placa se non nella contemplazione dell’oltre, nel superamento del conflitto che contrappone così ferocemente oggi mondo arabo e mondo occidentale.

E se altrove, come è stato notato, lo sguardo dell’autrice si dispiegava tra un Occidente penetrato nei suoi molteplici differimenti e un Oriente assaporato – e vagheggiato – nei numerosi viaggi, attraversato come uno stato aurorale e raffigurato in una dimensione di sottile, mistica spiritualità, qui lo scenario poetico si condensa in un variabile gioco di contrapposizioni, di contese, di antagonismi irrisolti, mediato solo dalla vocazione riappacificante del viaggio, al quale è simbolicamente affidato il messaggio salvifico, l’antidoto alla sofferenza e al dolore che hanno a lungo, con conflitti irrisolvibili, insanguinato buona parte del Novecento e anche questo nuovo millennio, interrompendo quello che nel passato era stato un incontro di culture millenarie.

Nella poesia d’esordio (Benvenuto tu sei viaggio…) sembra trasparire un rito di invocazione prima di intraprendere un percorso pieno d’incognite e dove la stessa percezione del tempo può alterarsi: ma il significato del viaggio va oltre la sua accezione comune, per farsi occasione di incontro e di conoscenza, (…volevo seguire il bramito/ il passo ritmato dei saggi/ la gabbia aperta di Allah/ il pensiero senza confine/ abitare un nomade sangue…), per farsi attraversamento di una alterità che non ci è dato apprendere se non penetrando lo spirito dei luoghi, accedendo ai risvolti più nascosti e drammatici delle popolazioni incontrate, esperienza non percorribile in una esplorazione concepita come curiosità o svago per il tempo libero.

Il viaggio è soprattutto occasione di misura e di confronto con la diversità, magari per scoprire le radici comuni di una umanità sconfitta, per ritrovare nel dolore degli altri la stessa difficoltà esistenziale che, una volta rimossa, affiora alla memoria del presente. Il viaggio è anche viatico dentro se stessi, cammino interiore verso il profondo, alla ricerca degli aneliti della propria spiritualità, sentita in un afflato condiviso con quei valori eterni che l’autrice ritrova in quella cultura e in quel mondo altro, a volte in dettagli minimali, che spesso per contrasto esplodono come un grido di fronte alla irrazionalità della morte o alla condanna perpetua alla ghettizzazione, alla povertà, all’odio interetnico e alla guerra (…vado per altri sentieri/ di morte che il cielo aggancia/ con stormi di vergini/ regalo di Allah/ ragazzi annidati/ di furia/ profughi dissanguano/ in fogne/ che chiamano campi/ a strisciare d’assenza/ fili spinati l’indice/ pronto al grilletto…)

E qui l’Oriente, anche se a volte sembra identificarsi specificatamente nel territorio palestinese o in quello israeliano (Ti guardo Israele/…lontano l’antico tempio/ distrutto/ nuovo il muro che umilia/ separa ad armi puntate), è assunto nella sua dimensione più ampia; infatti il termine si dilata a comprendere una lunga serie di connotazioni geografiche che appartengono all’intera area mediterranea del mondo arabo. Basta andare ai versi di apertura di numerose poesie, per ritrovare una serie di immagini folgoranti, nitide, chiaramente connotanti un luogo e uno spazio (Sobbalza il respiro/ la pista battuta/… Controsole a stanare/ dal blu del turbante/… Sono qui dentro l’wadi/… E’ fredda la sabbia di notte/… A onde e barriere dilegua/ la sabbia/… Salamandra fulminea/… Rade la duna il rosso del tramonto/…

E il viaggio si offre non solo come mediazione salvifica, ma come luogo di conoscenza della vita, dimensione di riflessione e di contemplazione. Attraverso i paesaggi solo accennati attraverso fuggevoli immagini di dettagli -una duna, un colpo di vento, un’oasi, un palmeto, una luce al tramonto, uno splendore solare che annienta, uno sguardo berbero, l’ossidiana degli occhi …nel cielo che avvolge il tuareg, un canto di nomadi del deserto- si va via via costruendo quel mondo d’oriente così amato e frequentato attraverso i ripetuti viaggi dell’autrice; frequentazioni motivate da un bisogno di avvicinarsi a quel mondo, alla sua spiritualità, alla sua cultura millenaria, alla sua tensione ancora attuale tra mondo dello spirito e mondo dell’esperienza, così pervaso da tradizioni di forte legame con la terra e con la natura, ove ancora, al riparo dalle vicende della guerra e dello strazio di una esistenza segnata dai muri della divisione, si può trovare il conforto del silenzio, quale metafora di una pace che pare irraggiungibile se non attraverso una distaccata e solitaria contemplazione, nella sospensione assoluta della parola.

Tu viaggio condurrai/ il mio io/ al sicuro alimento d’acqua chiara/ dove l’ampio respiro beduino/ s’abbevera dissolve/ in continue morti….

E’ un ambiente che si svela pieno di fascino e di mistero, ricco di una cultura che pure ha saputo, in altri tempi, sedimentare e nutrire il pensiero occidentale, dialogare, vivere un confronto, acquisire una feconda capacità di ascolto e di relazione.

Il percorso poetico, sullo sfondo di questo scenario, si snoda attraverso due direttrici verbali speculari e contrapposte, una di fronte all’altra, che si osservano, si misurano, si confrontano: da un lato nell’ingiuria della guerra, di un destino martoriato per le popolazioni dei campi profughi o per le giovani vite spezzate dalle cinture di morte, così come per tutte le vittime incolpevoli del conflitto; dall’altra nel silenzio che rimane come sconfitta del dialogo, come limite dalla parola, e che solo nella contemplazione poetica fatta di ritmi e di pause, di suoni e di melodie, di suggestioni e di allusioni, può suggerire una diversa dimensione in cui il dolore, riconosciuto come elemento unificante dello stesso destino esistenziale, possa diventare premessa per una rinnovata conquista di fratellanza e per una nuova parola di perdono.

Alla parola, declinata attraverso le rappresentazioni simboliche di una natura ardua e inaccessibile ma intensamente amata, l’autrice sembra chiedere di assurgere a elemento di riappacificazione degli uomini, e la parola ha la capacità di farsi a sua volta paesaggio e volto, messaggio e metafora, e di trasmettere il significato di ogni segmento del mondo e dell’umanità: sensazione e pensiero, desiderio e speranza, promessa di pace e vincolo di solidarietà.

Le due figure simboliche che trovano espressione nel titolo della raccolta nel prefigurare l’intrinseca opposizione, la dicotomia che pare irriducibile tra la realtà di due mondi, sembrano alludere anche al dualismo antico degli elementi, della natura e della cultura, dell’essere e del divenire, all’alterità originaria, alla differenza intesa anche come differenza di genere tra l’elemento maschile e femminile. E dunque differenza di linguaggio tra la parola femminile, legata al silenzio, ma anche alla generatività, alla vita, all’accoglienza, e quella maschile più consonante all’ingiuria, alla violenza, alla morte. Affiora una dimensione dove il linguaggio poetico sembra nascere proprio per dare voce al femminile.

Recuperando antiche tradizioni arabe, come quella descritta nel suono dell’imzad, il violino tuareg a una corda che accompagnava i canti delle epopee, sempre suonato da una donna, sembra affiorare il richiamo –non detto esplicitamente- alla leggenda della più antica opera poetica ad opera di una donna, quell’ Enheduanna, sacerdotessa della Dea Inanna vissuta ad Ur nel terzo secolo a.C., alla quale sono attribuiti numerosi inni, in lingua sumerica, tra cui il famoso “Inno ad Inanna”. (Il suo nome è il più antico tramandato come autore di opere poetiche nella letteratura mondiale, anche se la validità dell’attribuzione tradizionale è almeno dubbia, anche per motivi linguistici). Questa figura femminile è il simbolo di una donna forte, capace di infrangere le convenzioni non solo della vita ma anche della scrittura, e questa presenza di donna così intensa e decisiva viene ripresa nella poesia femminile araba contemporanea: per esempio nel famoso verso della poetessa bahrainita Hamda Khamis,: ”Ogni corpo è un essere vivente. Ogni poesia è femmina” (da “Estasi d’amore”)

E seppure i simboli di una condizioni femminile negata e umiliata (Stormo i burka ala contro ala/ nuvole in piena nel suk/ …gli occhi sminuzzati/ di grata/ frammenti d’umano/ …brandelli di vita…) siano fortemente evocati in alcune poesia della raccolta, essi vengono tuttavia in qualche modo esorcizzati da una ferma condanna che indirettamente viene marcata, per contrasto, dalla rappresentazione dolorosa della prigionia del corpo e dalla separazione femminile dalla vita sociale e civile (Non un raggio mi colora di sole/ avvolta/ nella custodia del burka/…non sarò mai fiore/ né nome mai sarò/ su questo nero foglio di/ solitudine.

…dentro il tuo burka sepolcro/ pensieri sgominati/ in guanto di tortura/… l’anima strappata…).

Eppure è proprio da queste donne negate, da queste donne private dei colori della vita che si innalza un senso di pietas capace di suscitare l’empatia del dolore, ed insieme il rifiuto dell’ assurda violenza di morte che travolge questi territori (Groviglio di lacrime il burka/ oh madre dammele quelle lacrime/… dammi un desiderio per il figlio/ strappato come acino/ dalla tua vite madre/ e a fianco sarò come te/ della morte.)

Da qui scaturisce quell’invocazione simbolica al deserto per un futuro diversamente possibile (Erg/…vorrei/ …in pace passeggiare/ nel pensiero di Allah/ in speranza convertirmi…) e soprattutto per sconfiggere quel semprenero di madri che sembra oscurare perfino la bellezza dei luoghi e la loro solarità vitale. Dalla forza di queste donne, continuamente violate dalla morte nei loro ventri materni assunti come sacrari, dal sentimento della partecipazione al loro dolore, scaturisce la volontà di andare oltre, (…non rimanga la pietà/ in eterno inchiodata/ nel grembo della madre…) di prefigurare un mondo dove la differenza non sia barriera ma dove chiese e moschee possano essere templi di tutti, nella preghiera del silenzio.

Da un lato l’ingiuria della violenza, della sofferenza e del dolore irreversibile, dall’altro la capacità di accoglienza, di ascolto, di silenzio –appunto- della donna, della madre, che sa riconoscere nella fibra del dolore la medesima umanità condannata alla sofferenza. Non ci sono vincitori e vinti in questa lotta perché gli occhi della madre sanno leggere la medesima mutilazione dall’una e dall’altra parte. E nell’icona dolente della madre dilaniata dalla stessa cintura di terrore che le ha strappato il figlio, l’autrice rappresenta -attraversando con grande delicatezza e lievità l’immagine della propria madre perduta (..raccoglierei tutte le acque del cielo/ madre nei miei occhi/ per ridarti il respiro sottile…) – il dolore della madre simbolica, quella sofferenza femminile universale che si concretizza di fronte allo sgretolarsi della vita, di fronte alla caduta e alla perdita della speranza dell’uomo, incapace di costruirsi un destino di pace.

La poesia di chiusura (Torna madre/ sotto la croce ad esser madre/ di tutti noi…), con una densità di immagini che stringono insieme le figure più significative della raccolta e circuitando le varie suggestioni dei simulacri della madre, non a caso sigilla questa pietas materna come unica speranza di una nuova umanità (…solo da te inizierà/ il percorso nuovo/ non più mine nel cuore/ ma stelle…) e svela il senso di un dono che ci viene consegnato a sua testimonianza come capacità di amore e, con un leggero e innocente gioco verbale, come necessario, irrinunciabile, perdono.

15 marzo 2008

Cara Leda, ho scorso 70 frammenti di parole che scorrono con la forza e la dolcezza di una ricerca inesausta: vi sono versi belli e meno belli, alcuni bellissimi
per la verità, ma tutti degni di essere letti. Trovo questo lavoro maturo e suggestivo, non un libro di viaggi, ma del viaggio del sé che, smarritosi nel labirinto del mondo, tenta di scovare le tracce per terra di percorsi perduti, frantumi per aria di discorsi, attimi resi eterni dal ricordo. Mi pare si possa parlare di un viaggio iniziatico, intenso come una preghiera, un’invocazione alla vita che volge al crepuscolo, ma che conserva intatta la sua fascinazione, oltre che il carico dei suoi dolori e delle sue immancabili nostalgie.
I testi di DESERTO risalgono dal buio fitto delle cose fino alla luce chiara e assoluta che non declina facilmente e non si spegne al primo rigurgito di ombre.
In questo consiste uno dei meriti maggiori della tua poesia, in un sentimento della durata che riscatta tutto l’effimero, il relativo, il transeunte che ci invade la coscienza e ci nevrotizza.
Ecco allora la sacralità del deserto, del vuoto, del silenzio, senza tutti gli ingombri della postmodernità, le mille cianfrusaglie trillanti, squillanti, orchestranti che tediano e ritediano senza sosta. Ci si siede comodamente sul divano (Rumi docet!) di questo deserto e si gustano le parole scelte e ricercate, fisicamente naturali e vere: per me è stata un’esperienza di lettura a tratti commovente, spero lo sia per ogni futuro lettore.
Complimenti per l’impresa.

Donato Di Stasi

Dal blog Poetrydream

Ingiurie e silenzi può essere letto come un diario poetico di viaggio verso l’Oriente, che è insieme luogo geografico e spazio dell’anima; il testo non è scandito e tutti i suoi componimenti sono centrati sulla pagina e senza titolo; il testo è caratterizzato da un ritmo molto accentuato che dà, al contesto complessivo, una certa musicalità; tutte le poesie si risolvono in unico respiro, anche per l’assoluta mancanza, in esse, di punteggiatura. In Ingiurie e silenzi, si avverte, molto fortemente, il senso del cronotopo, del tempo nello spazio, che è il luogo del viaggio; nella prima poesia, che ha un carattere programmatico, l’io-poetante si rivolge al viaggio stesso, che diviene il “tu” a cui rivolgersi, un viaggio personificato:-“ Benvenuto tu sei viaggio perché/ perdo d vista con te accanto/ il tempo/ lo lascio ecco avariare/ tra i rintocchi del pendolo/ non mi rovescia oggi/ gli assilli di una vita/ quotidiana// un’unghia di avvenire fruga/ l’atlante che caldo gira/ in un cavo di mano/ su un punto spiana – un riposo/ di giallo-/ quanta saggezza assorbo tra le mani/ quant’anima si allarga/ si schiarisce/”-;. questa poesia è pervasa da un’ansia dinamica e controllata, verso la temporalità e la spazialità e, nello stesso tempo verso la tensione che conduca ad una possibilità di quiete (vedi la bella sinestesia riposo/di giallo). In questo testo c’è una forma avvolgente dei testi e una certa pesantezza, che si coniuga a un’accentuata lentezza nel dettato, caratteristiche di per se stesse non negative, leggermente amplificate dalla forma centrata dei versi, forma che rende lo stesso ritmo incalzante. C’è una certa sinuosità nei versi, che sgorgano gli uni dagli altri, in un procedimento per accumulo. In Ingiurie e silenzi incontriamo una certa levigatezza del dettato, che è pervaso da una marcata eleganza. Una delle caratteristiche di questi versi è la visionarietà che si coniuga ad un andamento suadente e, a volte, musicale; è iterativo il rivolgersi al viaggio, come ad una persona. Pare di assistere, all’inizio del libro, ad una fase preparatoria al viaggio, successivamente al viaggio vero e proprio; vengono descritte tutte le sensazioni evocate dal viaggio, come la nostalgia. A volte la musicalità del versificare, dà al tessuto linguistico un afflato di canzone. E’ evidente anche la presenza della natura, in paesaggi ed animali che vengono nominati, Una forte chiarezza pervade queste poesie, che, spesso, hanno un tono lirico e vagamente elegiaco. Ingiurie e silenzi può essere letto come un poemetto, per l’unitarietà dell’argomento e per la compattezza e la coerenza formale. In alcuni componimenti riscontriamo un certo straniamento, insieme ad una disposizione anarchica dei versi, come nella poesia a pag. 29:-“Piccoli scorpioni nella notte/ in cerca di anime da seccare/ avanti e indietro della mente/ manovrare i sogni/ (non li so guidare/ per loro nulla a riposo/ sconfitte umiliazioni// cascame di civiltà/ che trascino a spalla/ lungo/ la distesa di case strade/ chiamate vita dove/ straniera/ la voglia di finire/-“. C’è densità semantica in questo componimento; nell’incipit incontriamo gli scorpioni, simbolo del male; seguono immagini dal carattere ontologico (l’avanti e indietro della mente, i sogni da manovrare la vita chiamata e la voglia di finire). Salienti i versi a pag. 19.-“ …che tu viaggio condurrai il mio io/ al sicuro alimento di acqua chiara dove l’ampio respiro beduino/ s’abbevera dissolve…/”. Da questi sintagmi possiamo dedurre che il viaggio viene considerato dal poeta come un evento salvifico; l’acqua è qui chiaramente elemento e simbolo di rigenerazione. Molto spesso c’è una forte corporeità in questi versi come in questo passaggio:-“ …è spada stanotte la luna/ che snuda coperchi di me…/”.

RAFFAELE PIAZZA

Da: CONTEMPORART- Rivista trimestrale – EDIZIONI GHIRLANDINA- Nonantola- Modena

Colpisce positivamente – all’interno della scrittura poetica di Palma – la postulazione di una parola che ha da essere “errante”, “vaga” e congiuntamente “nomade” (come era in Jabès e come osserva Maria Carminati nella sua prefazione). Leda Palma è friulana di nascita ma poi romana di adozione: attrice dalla statuaria e teatralissima evidenza, ma anche scrittrice sensibile e passionale. La sua ultima raccolta, apparsa nella Collana Nuovi Fermenti / Poesia diretta da Velio Carratoni, si presenta come la più sorprendente tra le cinque già pubblicate. Ci si interna nella descrizione di un viaggio in Medio Oriente (c’è il mondo arabo, Israele, il suk), ma emerge anche il resoconto lirico, vissuto e ripensato interiormente, di una singolarissima esperienza; un resoconto dove il diarismo e insomma la porzione di vissuto si affidano alla percezione della particolare lingua dei versi. Quantunque infatti Leda Palma si sia cimentata anche con la prosa, scrivendo tra l’altro dei racconti, diremmo che questo Ingiurie e silenzi conti proprio per la condensazione poetica. Nella quale il prosimetro ampiamente utilizzato ricerca effetti sonori e al contempo visivi, collocandosi e definendosi nella pagina nelle espansioni e ritrazioni della scrittura, marcando effetti da poesia visiva o almeno da poesia composta con un carattere e una determinazione anche visivi (secondo una combinata e ordinata armonia mediata o almeno in qualche parte dal mondo e dall’arte islamici, dai segni dalle infiorescenze e dalle decorazioni di palazzi e moschee medio-orientali).

Così, dentro ogni singolo scomparto (o spartito, ove si preferisca la dizione ritmo-prosodica a quella puramente ornamentale), scivola il flusso delle pulsioni e delle emozioni, che generano il cangiamento di sguardi e umori. Per cui, a ridosso dell’iniziale fascinazione e dopo l’immersione in luci e sonorità diverse ma anche dopo l’internamento in odori e profumi pungenti, subentra un processo di metamorfosamento da una dimensione unitaria dell’io a un nulla lucente – pieno di luce ma altrettanto accecante – esemplificato da un deserto in cui tutto si espanda in maniera illimite. Anche attraverso gli schermi di una memoria lirica mai abbandonata anzi evocata e si direbbe quasi chiamata in causa per rielaborare e chiarificare le emozioni (del resto si fa a un certo momento menzione di Rumi); anche insomma per il tramite dell’esercizio poetico la scrittura pur uniforme e compatta tende a disciogliersi in qualcosa di libero e fluttuante (che solo per convenzione potremmo dire anche orientale e mediterraneo). Ciò nonostante quegli stessi versi pencolanti e vibranti su una dimensione ‘altra’ mantengono intatto l’ordo rationalis occidentale.

Onde la scoperta di un’alterità che è fatta non solo di sogni e sensuosità ma ugualmente di consunzione e dolore. Si sviluppa a partire da questo momento quella parte della raccolta che insiste sul conflitto occidente-oriente, come anche sulla necessità di un recupero di verità per tutti, occidentali e orientali. Una verità che si identifica simbolicamente con una figura femminile che è al tempo stesso la Vergine, la ragazza araba, la madre dei giovani che hanno preso il fucile e di quelli che sono periti. D’altronde, come viene ricordato nella bella e ben compendiosa introduzione-e come recita il verso celebre della poetessa bahrainita Hamda Khamis: “Ogni corpo è un essere vivente.Ogni poesia è femmina”.

GUALTIERO DE SANTI

Paolo Carlucci
Brace sulla sabbia

Nomade onda di conoscenza e di emozioni, Leda Palma, in Ingiurie e silenzi, ci fa
assaporare un vento di versi inquieti di paesaggi nella storia. Il suo viaggiare spazia
dalla contemplazione di deserti resi paesaggi dell’anima. Sono qui dentro l’wadi/ a
invocare la pioggia/ so che i demoni l’hanno rapita/…. gli occhi affondo nei millenni/
scorro con l’acqua sul palmo del fiume/ verso una morte inesistente. Il senza tempo
archeologico e naturale diviene però orizzonte civile di sabbia e di lacrime, frutto,
specie nel Medio Oriente, teatro di profonde crisi interculturali, di guerre
asimmetriche e falsamente chirurgiche. Dileguano le stelle frustate /dalle bombe /è
certo allora l’inferno/quando la ragione decide /di infeltrire irrompe l’wadi lacrime
e sangue. Ingiurie quindi, La sicurezza non è/l’insicurezza dell’altro -a chi non ha sarà
tolto anche/ quel poco che ha. Tornano, qui e altrove, nel libro, toni biblici vetero
testamentari di saggezza e crudeltà. E siamo ancora nella terra di Sion! In quella
Palestina, ieri filistea, oggi panaraba in nuova sofferenza di spazi e di idee con il
nuovo stato d’ Israele. Gli scenari della storia contemporanea danno però modo alla
poeta di modulare la propria ingiuria civile attraverso toni di accesa musicalità, di
parole- lama che feriscono, si pensi alla lirica polimetra Miniera di pietre. Questa
violenza di spade si allarga al paesaggio, alla notte, E’ spada stanotte la luna che
snuda il coperchio di me … luci su milioni di stracci dove/ strisciare si legge esistere/
e la luna è il colore dei morti. Rifulge in questa bufera d’odi e di lacerazione il
silenzio, lo stupore , il visomattino della Parola. Si coglie l’importanza di un sagace
uso della vena mistica orientale che, da Rumi ad Adonis illumina l’antropologia del
sacro, lo spirito di un nuovo dialogo inter religioso e culturale. E in quest’ottica si
colgono suggestioni importanti, penso ai cori di Storia lacerata nel corpo di una
donna opera recente del grande poeta siriano. Cadaveri, preghiere. Ci sarà
un’esplosione che conduce all’estremo/ confine? Discesa, passanti confusi che hanno
legato il filo dei loro giorni a resti di ossa. Gilgamesh demolì la propria casa. I suoi
piaceri migrarono … Dite la fratellanza è uccidere nella saggezza della rivelazione?
Anche nella Palma il silenzio è fertilità femminile e insieme urlo nero di ferita
immedicabile. Maternità al Calvario, appello alto a Dio, è il tema dell’ultima intensa
lirica in cui il silenzio e l’ingiuria si fondono in una grammatica dura, ma ventosa di
simboli di speranza, come è nel linguaggio della profezia … diglielo che a morsi/ ci
strappa la vita … ma pure percorso nuovo/ non più mine nel cuore / ma stelle a
formare /ad ogni tuo respiro/ per dono e sia per noi /conquista. In questa
prospettiva di parole nomadi per il nostro presente va infine colta la suggestione di
un eros che si fa vento di luce, si veda l’intensa forza di sensazioni naturali in
Scorrono veloci le dita sul rosario, che molto riprende del vigore complementare
della mistica e dell’eros del mondo sufi .Tuttavia la forza maggiore del libro la si
coglie nell’essere versi di salvezza inquieta per i cascami di civiltà, la nostra, globale
e straniera, in cui si muovono gli scorpioni della notte in cerca di anime da seccare
avanti e indietro nella mente. L’Autre è divino, straniero, il vento, non il poeta,
inteso come certificatore della finitudine, dunque non manovra i sogni. E verso
questo altro, fatto di storia e di metafisica solitudine di luce va pellegrino d’oriente
occidentale a cercare un’unghia d’avvenire, a inventarsi un altrove, il tempo che non
avaria, l’immaginario che dà il benvenuto al viaggio e al lunario dei giorni feriali
concede la festa del verso. Sogno fatto alla fiaccola di stelle di … ragione.

Roma è una città splendida e maledetta. Lo sanno tutti coloro che la vivono amandola e non riuscendo a separarsene. E’ una città che ti fa soffrire se solo cadono due gocce d’acqua in un momento inatteso, inverno o estate che sia. Se poi quel giorno alla pioggia si unisce il sacrosanto diritto di manifestare, la Città eterna impazzisce. Provi a immaginare, chi non conosce Roma, cosa può significare se le due gocce d’acqua si trasformano in un temporale di tipo equatoriale e se le manifestazioni di piazza diventano due e se ad esse si aggiunge lo sciopero dei mezzi pubblici. Questo accadeva il 14 dicembre scorso, quando in via dei Coronari, nel cuore di Roma, doveva svolgersi la presentazione di “Ingiurie e silenzi”, libro di poesie, o “poetico diario di viaggi”, di Leda Palma. Ma Roma ha una sua magia e, a dispetto delle avversità, “Ingiurie e silenzi” ha visto un discreto pubblico il quale, affascinato dalle letture dell’autrice, ha partecipato alla creazione di quell’atmosfera particolare che sembra colorare l’aria e legare tutti i presenti col filo invisibile del piacere condiviso di essere lì, proprio lì. Nonostante tutto. Ingiurie e silenzi. Un deserto e lontane montagne all’orizzonte. Un deserto doppio col cielo a fuggire e a segnare una distanza che sa d’infinito. Comincia così il “diario poetico” di Leda Palma: dalla copertina. Il deserto che torna nei versi liberi che compongono la raccolta e che dà forma al silenzio è già lì, coi suoi colori, a chiudere e al tempo stesso aprire le pagine che raccoglie. Quegli spazi che formano il paesaggio su cui scorre la poesia – “la” poesia, perché tutto il libro, sia per i temi che si rincorrono, che per lo stile e per la stessa spazialità grafica, sembra essere un unico canto modulato sulla sabbia – quegli spazi sono abitati da uomini, da donne, da “fanciulli di pietre e stracci”. E questa raccolta, con quei “fanciulli di pietre e stracci” e quei “burka ala contro ala” e la “stralunata sabbia piegata al patimento” si fa “poesia civile”, in un’estetica del paesaggio che non è natura distante, ma è parte di quel tutto che l’autrice già ci comunica scegliendo di far precedere i suoi versi da quelli di Gialal ad Din, antico poeta sufi teorizzatore dell’unità dell’essere. Leda affida al viaggio le emozioni e le suggestioni che il viaggiare le restituisce, gravide di altre emozioni e suggestioni che prendono forma di versi dentro e al di là del tempo: “Benvenuto tu sei viaggio perché/perdo di vista con te accanto/il tempo”sono le parole con cui si apre la silloge. E nel viaggio il deserto è suo compagno. “A onde e barriere dilegua la sabbia…” parole che evocano una danza, lenta, e nello scorrere delle pagine la sabbia si fa essere vivo nel silenzio palpabile di una sensualità incantata che vagheggia un morbido unirsi del tramonto alla duna, come parte del tutto nel fluire degli eventi che attraversano il tempo segnando una “linea leggera fra ricordo e oblio”.
La comunicazione artistica, ha affermato il professor Zambardi presentando il volume, contiene sempre motivazioni sociali e, quindi, si fa portatrice di valori sociali finendo per rappresentare, attraverso il segno estetico, un’istanza di incivilimento. In effetti in “Ingiurie e silenzi” questa istanza si percepisce intensamente, ma senza danno per l’aspetto artistico. I silenzi della contemplazione, ma anche i silenzi di cui “pullulano i passi/campanula nera del burqa” e in quei silenzi sepolcrali l’autrice partecipa all’ingiuria dell’ingiustizia che investe le donne. Donne schiacciate da un potere violentemente cieco, che usa Dio per togliere il sole e la parola e il canto a corpi femminili imprigionati dal burqa. Ma anche l’ingiuria verso i profughi che “dissanguano/ in fogne/che chiamano campi/a strisciare d’assenza”.
In questi versi, che sembrano lampi di paesaggio colti tra “fili spinati” e “rombo di muro” affiora il Medioriente conosciuto e amato dall’autrice, e la storia partecipata e sofferta di quell’esistere strisciando di “morti addestrati a fare altri morti”.
Il wadi di lacrime e sangue, le bottiglie d’acqua strette come tesoro da mani di donna nel deserto, il turbante tuareg, il rosario lentamente sgranato, il piede coperto dal burqa e nascosto al sole che scalda, e sabbia, e pietre, e mine sono immagini di un Medioriente compreso in uno sguardo a tutto campo che si fa poesia entrando nell’intimo tormento dell’esistere ingiusto. La poesia che senza perdere se stessa sa dare voce al silenzio delle vittime e al loro dolore, e che passa e ripassa sulle ferite che umani infliggono ad altri umani, si sofferma in più versi sul muro che umilia e separa. E il pensiero, portato dai versi dell’autrice, attraverso i deserti arriva sulle tracce della Palestina occupata. Leda sembra invocare un amico che ha tradito la sua fiducia rivolgendosi a Israele con un vibrante“Ti guardo Israele/stretti i pugni/di pianto … … osa Israele/lascia al deserto la voglia/di volarti/accanto”. Ma alle sue esortazioni risponde il silenzio rotto solo dal “clamore di pietre che piovono da fanciulli puliti di cuore” quei “fanciulli di pietre e stracci”cui
l’autrice ha legato il suo cuore.
Come il vento che muove la sabbia del deserto cambiando la forma alle dune senza toccarne l’essenza, così i versi di “Ingiurie e silenzi” passano di suggestione in suggestione fino ad affidare alla parte femminile di “sorella amica madre/per non slegare l’unità/infinita” il sogno di essere acqua che lava il deserto, di essere luce che mostra il perdono, di essere inizio di un percorso di vita come può esserlo solo chi conosce il dolore più intenso che ci sia: quello di far nascere e di veder morire un figlio. La silloge si chiude con versi di figlia a una madre universale: “parla/a questo Dio che promette/albe che non sappiamo cogliere/diglielo che a morsi/ci strappa la vita”. Ed il perdono come conquista, mentre chiude la silloge, sembra voler essere il proseguimento ideale di quel viaggio cui l’autrice ha dato il benvenuto nel verso d’apertura.

Patrizia Cecconi

Ingiurie e silenzi può essere letto come un diario poetico di viaggio verso l’Oriente, che è insieme luogo geografico e spazio dell’anima; il testo non è scandito e tutti i suoi componimenti sono centrati sulla pagina e senza titolo; il testo è caratterizzato da un ritmo molto accentuato che dà, al contesto complessivo, una certa musicalità; tutte le poesie si risolvono in unico respiro, anche per l’assoluta mancanza, in esse, di punteggiatura. In Ingiurie e silenzi, si avverte, molto fortemente, il senso del cronotopo, del tempo nello spazio, che è il luogo del viaggio; nella prima poesia, che ha un carattere programmatico, l’io-poetante si rivolge al viaggio stesso, che diviene il “tu” a cui rivolgersi, un viaggio personificato:-“ Benvenuto tu sei viaggio perché/ perdo d vista con te accanto/ il tempo/ lo lascio ecco avariare/ tra i rintocchi del pendolo/ non mi rovescia oggi/ gli assilli di una vita/ quotidiana// un’unghia di avvenire fruga/ l’atlante che caldo gira/ in un cavo di mano/ su un punto spiana – un riposo/ di giallo-/ quanta saggezza assorbo tra le mani/ quant’anima si allarga/ si schiarisce/”-;. questa poesia è pervasa da un’ansia dinamica e controllata, verso la temporalità e la spazialità e, nello stesso tempo verso la tensione che conduca ad una possibilità di quiete (vedi la bella sinestesia riposo/di giallo). In questo testo c’è una forma avvolgente dei testi e una certa pesantezza, che si coniuga a un’accentuata lentezza nel dettato, caratteristiche di per se stesse non negative, leggermente amplificate dalla forma centrata dei versi, forma che rende lo stesso ritmo incalzante. C’è una certa sinuosità nei versi, che sgorgano gli uni dagli altri, in un procedimento per accumulo. In Ingiurie e silenzi incontriamo una certa levigatezza del dettato, che è pervaso da una marcata eleganza. Una delle caratteristiche di questi versi è la visionarietà che si coniuga ad un andamento suadente e, a volte, musicale; è iterativo il rivolgersi al viaggio, come ad una persona. Pare di assistere, all’inizio del libro, ad una fase preparatoria al viaggio, successivamente al viaggio vero e proprio; vengono descritte tutte le sensazioni evocate dal viaggio, come la nostalgia. A volte la musicalità del versificare, dà al tessuto linguistico un afflato di canzone. E’ evidente anche la presenza della natura, in paesaggi ed animali che vengono nominati, Una forte chiarezza pervade queste poesie, che, spesso, hanno un tono lirico e vagamente elegiaco. Ingiurie e silenzi può essere letto come un poemetto, per l’unitarietà dell’argomento e per la compattezza e la coerenza formale. In alcuni componimenti riscontriamo un certo straniamento, insieme ad una disposizione anarchica dei versi, come nella poesia a pag. 29:-“Piccoli scorpioni nella notte/ in cerca di anime da seccare/ avanti e indietro della mente/ manovrare i sogni/ (non li so guidare/ per loro nulla a riposo/ sconfitte umiliazioni// cascame di civiltà/ che trascino a spalla/ lungo/ la distesa di case strade/ chiamate vita dove/ straniera/ la voglia di finire/-“. C’è densità semantica in questo componimento; nell’incipit incontriamo gli scorpioni, simbolo del male; seguono immagini dal carattere ontologico (l’avanti e indietro della mente, i sogni da manovrare la vita chiamata e la voglia di finire). Salienti i versi a pag. 19.-“ …che tu viaggio condurrai il mio io/ al sicuro alimento di acqua chiara dove l’ampio respiro beduino/ s’abbevera dissolve…/”. Da questi sintagmi possiamo dedurre che il viaggio viene considerato dal poeta come un evento salvifico; l’acqua è qui chiaramente elemento e simbolo di rigenerazione. Molto spesso c’è una forte corporeità in questi versi come in questo passaggio:-“ …è spada stanotte la luna/ che snuda coperchi di me…/”. Nella silloge c’è un avvicendarsi dei versi, uno dopo l’altro simile al fluire di acque di cascata. Ci sono poesie ambientate in luoghi esotici, in un palmeto, in un’oasi, in cui l’io poetante depone il capo su un guanciale di sabbia; per la brevità dei versi le poesie possono essere considerate quasi sempre verticali. Le descrizioni dei paesaggi trasudano magia e sensualità; a volte incontriamo immagini costellate da una grande crudezza; infatti vengono detti i profughi, il filo spinato e l’indice proteso al grilletto. A volte la poesia si fa preghiera, come quella a pag. 50, che può considerarsi una vera preghiera in versi. Come scrive Maria Carminati nella prefazione sotto il profilo dei temi portanti si assiste ad una adesione fortemente empatica della cultura del mondo arabo – in senso lato – e di tutti gli elementi fortemente simbolici, che ne costituiscono la connotazione, all’interno dell’immaginario occidentale. In particolare gli incontaminati e scarni scenari naturali, ancora in essi conservati, il legame indissolubile tra la natura e gli uomini, il rapporto non contratto con il tempo e con la morte, insieme ad una radice di umanità che abbiamo perduto, divengono il tono dominante dello sfondo, presente in ognuno dei sessantaquattro componimenti della raccolta, capace di conferire al testo quel particolare registro espressivo, teso tra la minuta essenzialità del quotidiano e il tragico confronto con la vita, e quell’aurea di magica sensualità che attraversa le percezioni dei paesaggi e delle figure che li abitano. Viaggio in poesia e poesia del viaggio, alla ricerca essenzialmente di se stessi.

RAFFAELE PIAZZA
Roma 2010

Già il titolo di questa recente opera di Leda Palma-Ingiurie e silenzi- esprime il leitmotiv cui la
poetessa si ispira: una vibrante empatia per il mondo mediorientale osservato con l’occhio poetico
di una viaggiatrice. Ĕ una poesia che non lascia spazio a vuoti e retorici sentimentalismi e si nutre
invece di profonde riflessioni sul destino dell’essere umano che si sta avviando verso il terzo
millennio- una poesia originale anche dal punto di vista linguistico dove più che l’andamento
referenziale prevale l’uso continuo della paratassi allusiva- dove il verso gioca poco sull’io ed
è invece sempre attento all’altro, al fuori di sé coniugando egregiamente valori estetici e valori
civili attraverso l’esplorazione reale di alcuni paesi arabi: Siria, Palestina, Yemen, il deserto,
trasformando così il viaggio in un approfondimento delle problematiche umane e sociali ai fini del
processo di incivilimento, della crescita civile, per il superamento dei contrasti e l’affermazione di
un equilibrio globale tra gli uomini e i popoli.

ARNALDO ZAMBARDI
Dicembre 2010

INTORNO A: “INGIURIE E SILENZI”

Ho apprezzato la novità delle tematiche che affrontano questioni culturali e di costume di notevole rilevanza, nonché l’originalità dello stile, messo bene in luce dalla prefatrice.

SILVANO DE MARCHI

… Lavoro compatto, prezioso, affascinante. La parola porta con sé la sontuosità del “lontano”, l’eco ampia del mito, facendosi simultaneamente immagine spalancata e solenne.
Mentre nell’inevitabile scontro tra offesa e parola negata sopravvive l’arcaica attesa suggerita dalla speranza nella MADRE.
Bravissima! Ottimo il “meccanismo”

ISABELLA DEGANIS

Concordo con quanto Maria Carminati afferma nella bella prefazione: per unitarietà di temi e di linguaggi- per unitarietà di atmosfere e di urgenze espressive-le liriche si compongono in effetti, nell’unica fisionomia di un poemetto. Intenso, suggestivo, coniugato nei modi di un’empatia che vibra a ogni pagina e che conduce davvero in quell’altrove che tu sembri perseguire e percorrere – più nomade che viaggiatrice, nell’accezione data da Rosi Braidotti alla parola- alla ricerca di altri spazi- geografici e culturali, umani e interiori – ma anche di altri tempi.

Il tuo poemetto mi ha ricordato un’immagine che ho sempre trovato molto bella e soprattutto vera, usata da Blanchot per definire il (e la, aggiungiamo noi) poeta: colui il cui sguardo è privo di palpebre, colui che non ha la possibilità di chiudere gli occhi di fronte ad alcun aspetto dell’esistente. Ecco, queste tue poesie sono così: una sorta di sguardo ampio e profondo, quasi prensile, che non può esimersi dal registrare, dal vedere, dal testimoniare, dal consegnare alla memoria volti e esseri, cultura e natura: “stormo i burka ala contro ala…” “l’anima allungo a forare l’azzurro…”, “il vento ha sbrinato le nubi/ guarda/ è cosi chiara la notte…” Ma quando non è lo sguardo (che qui sembra spesso essere emozione, stupore mozzafiato, innocenza) allora è il sacro di una ricerca inesausta (di sé, ma anche di un Uno), a fianco di una memoria (spesso corporea) dolente, profonda, ferita: “…gli occhi affondo nei millenni/ scorro con l’acqua sul palmo del fiume/ verso una morte inesistente.”; “mutare dio ogni giorno/ ogni giorno raccogliere/ un dio morto”. (molto bello!, “e non so/ dove l’inizio dove la fine/ come la mosca/ nel pugno di chi decide.” C’è incandescenza e ghiaccio, in questa tua raccolta: innocenza (stupore ancora bambino) e disincanto che pesa.

ANTONELLA SBUELZ

…Ho ricevuto la sua raccolta di poesie e le scrivo sia per ringraziarla del graditissimo omaggio sia per dirle che la sua padronanza linguistica e la sua carica espressiva e spirituale mi hanno molto impressionato…

GUALBERTO ALVINO

…Ho trovato una totale adesione ai temi (che pure non sono facili e quotidiani) e una maturità espressiva di grande rilievo. Ma ormai conosco la tua poesia, sempre densa di significato, di sfumature che vengono colte a volo con immagini indimenticabili e non mi meraviglio più del tuo andare avanti conquistando spazi poetici sempre più rilevanti. Ho molto apprezzato anche il saggio introduttivo di Maria Carminati che ha saputo entrare nella tua poetica con passo deciso scandagliando bene ogni risvolto del tuo mondo.

Auguro al tuo nuovo libro la fortuna che merita, perché è autentico e ricco, denso di risonanze antiche che riportano la parola a una castità piena di evocazioni.

DANTE MAFFIA

Mi sembra che questo tuo libro è andato “oltre” e contiene una grande interiorità tua ma ancestrale. Hai compiuto un bel viaggio da seguire e ascoltare pure , il tuo adagio ma non troppo. E’ stato un piacere leggerti, sentirti, assistere al tuo parto nel deserto.

EDITH BRUCK

Il valore (non soltanto grafico e simbolico) di questa silloge sobria e perentoria, lo si scopre nell’inesorabilità della sua lingua audace, non molle o diaristica, ma scolpita, essenziale, ardente ed ebbra. E, nel clima della stessa materia,diventa più agevole l’uso nel farsi essenza singolare e responsabile pietra. Ecco quindi le innumerevoli possibilità di scovare le parole forti, dure, in un aspetto più narrativo che fiabesco, calcolate come una misura di tutte le cose e quantificate come sincero supporto del viaggio di cui Leda Palma ci informa, ovviamente avviluppando in esso la storia piuttosto che un lieto o ameno idillio. Ed ecco perché i versi sono accolti (e raccolti) al centro della pagina, sia per offrire al loro dettato un podio morale, sia quel genere di distinguo epigrafico che dispone i concetti come una circostanza spezzata e lievitante, che intende durare nel tempo, qualunque siano i suoi vacillii di circostanza o le forme lievi. Le istanze secche diventano -nel percorso verticale dominante- elegia, traccia di frammenti sepolcrali, cronache di un aldiquà solitario, perduranti se non estreme, e quasi insegne che guidano al deserto o che nel deserto optano per una reazione civile, tentacolare, vivida. Chi legge è dinanzi a rivelazioni appassionate, intende attivamente l’allinearsi alle tensioni mediorientali, ad un paesaggio quieto e inquieto, abitato da un’immagine apocalittica, luminosa, così come a stati fragili di realtà e contingenze fotografiche, relative a esistenze antiche e ad odierne ninne nanne arabe. Vicende della curiosità e del misero corpo che descrive memorie, paure, sabbie, modalità esistenziali insistite, strategie su nozioni senz’altro recuperabili alle esigenze delle molteplici culture del nuovo mondo. Tra archeologie roventi e musiche lamentose, Leda Palma coglie una serie di spunti per rinascere alla contemplazione intrecciata alle preghiere: ritmi, riti, gesti, destini ineluttabili e competitivi, in sensi umani e religiosi che nessuno si è scelto prima di constatare essenze e vaniloqui, ma che riescono a farsi ammirare ed amare come fede pura. Leda Palma è l’usignolo che gode, attraverso la poesia, codesti sussurri, suoni, arie riflessive, e il poema registra di tutto punto esclamazioni dirette, sentimenti sinceri, rapidamente assimilati a quella progressiva ispirazione già risaputa per ciò che ha finora pubblicato (natura e cuore compresi). “Non un raggio mi colora di sole /avvolta/ nella custodia del burka/ non un canto a salire o parola/ né il breve di un sorriso/ scrivi come si spegne novembre/ e tutti i mesi scrivi/ che non sarò mai fiore/ né nome mai sarò/ su questo nero foglio/ di solitudine” (pag.39); “Lasciati cadere sole/ fai buio l’orlo della duna/ confondi le mie tempie/ il mio pulsare/ il mio sì versato nella vita/ che si fa maschera/ lasciati andare sole/ slacciati/ così chiudo la porta/ ai resti di battaglie/ all’orrore di pietre/ sulle mani ferite/ arrotola il tempo/ voglio falciare/ le pagine che restano.” (pag.65). E non mancano fra i testi (senza segni di interpunzione: come si addice alle epigrafi) le veemenze, le umiltà, le pronunce diverse trasmesse con nobiltà di pensiero privato e senza crude enfasi, in più esclamazioni, a suggestioni di tipo profetico, ed emozioni insolite dovute al nutrimento poetico, di cui Leda dispone nel desiderio insieme di trascendenza e di configurazioni quotidiane, all’altezza del tema e delle sue verità: dosate, rarefatte, colorate di nostalgia quando i riferimenti considerano la vita e l’amore o il sogno indivisibile dal gioco degli stimoli etico-sociali e delle mutazioni!

DOMENICO CARA

Ho letto le sue poesie con particolare emozione e ammirazione. Il suo discorso poetico è appassionato e intensissimo…

GIORGIO BARBERI SQUAROTTI

Un diario poetico si offre alla lettura con il ritmo affascinante che inonda delicatamente il viaggio personale, attraverso vicende multicolori o fantasiose, mediazione e attraversamento in uno scenario misterioso e ricco di confronti, fra tradizioni e recuperi, ove il canto riesce a coinvolgere quasi come un racconto spezzettato.. Il tema multiforme si delinea tra scarti improvvisi di aperture per divenire il filo conduttore che accomuna figure, scenari, visioni in una originale scrittura pregna di sensibili e raffinate preferenze.

Qui è il viaggio, inteso come avventura poetica vissuta in una mitica versione orientale, è l’occasione per scoprire altre misure, altri mondi, per ritrovare il piacevole soffio del sussurro, nella ricerca di ulteriori diversità, nella esplosione di esistenze e memorie sconosciute. Un fluire semplice capace di immediatezze fra interrogativi e ricchissime attese.

ANTONIO SPAGNUOLO

…Attraverso il viaggio hai attraversato il nostro tempo davvero triste e, da donna, hai messo in relazione il tuo essere profondo con il mondo, con la sua bellezza e il suo dolore, con la sua utopia e la sua “squarciata melagrana”, con il riverbero della sua luce e con il silenzio della sua oscurità. Alla forma, misurata e personale, hai affidato il movimento continuo, l’incessante metamorfosi di questo rapporto vivo e potente.

MERYS RIZZO

– Luigi Celi su INGIURIE E SILENZI di LEDA PALMA – Roma 12/03/2010

Una silloge di poesie, questa di Leda Palma, sul doppio binario del viaggio poetico-religioso-ascetico e della rievocazione di viaggi compiuti in Africa e Medio Oriente. La raccolta è anche occasione di riflessione metapoetica attraverso la poesia. La versificazione, mai inclinata al prosastico, è testimonianza delle possibilità ancora feconde della lirica, nonostante la crisi che ha investito questo genere, per l’ostracismo a cui è stato sottoposto in Italia, almeno a partire dal gruppo ’63, fino ai neosperimentali di oggi. L. Palma fa parte del nocciolo duro di quei poeti che considera la lirica forma letteraria non volta solo al passato, ma che si autoesperimenta in ripresa. Essa è adottata perché non rinuncia alla metafora, all’ossimoro, all’allitterazione, a una certa aulicità/elevatezza, alla musicalità del linguaggio, e nello stesso tempo può operare sul piano asimmetrico del confronto con la realtà civile e con le controfacce filosofiche, psicologiche, mistico-religiose del pensiero. Nel caso di Ingiurie e silenzi si tratta di una poesia di pensiero in immagine, sensibilità, sentimento. Nessuna sdolcinatura è concessa a chi elegge il deserto a simbolo di una esperienza plurima. L’essenzialità si dà rastremando il linguaggio per sostantivi e verbi, senza aggettivazione. Questa opzione fa pensare agli ermetici. Alcuni motivi e il tipo di versificazione avvicinano L. Palma ad Ungaretti. Il deserto rimane sempre sfondo e archetipo. Ne Il taccuino del Vecchio, scriveva Ungaretti: “Si percorre il deserto con residui/ Di qualche immagine di prima in mente” e “la mira” veramente “va al Sinai”. La disposizione figurale centrata della pagina elimina la punteggiatura per joyciano “flusso di coscienza”, favorisce epifanie visive, cadenze ritmiche, tipologia di cesura ad epigrafe. Visionarietà immobilità atemporali si danno quali rovesciamenti speculari alla mobilità del viaggiare. La scelta formale compensa il rifiuto delle forme metriche tradizionali e – come intende anche M. Carminati, nella sua prefazione – proprio per il suo “assetto spaziale, assume funzione dinamica e anticipatrice dei significati seguenti, richiamando certi tratti della poesia civile”. Aggiungerei, della poesia oracolare.

Il saluto bene augurante del primo componimento, rivolto al viaggio, più che una “invocazione” è segno di una liturgia di accoglienza, con implicazioni simboliche transpersonali. C’è un viaggiare erotico-spirituale: “Viaggio che mi scopri amica/ amante che da te mai s’allontana” (pag 21) La vita è viaggio: abbandonarsi al suo flusso interno/esterno, anche coricandosi “a faccia in sù”, è porsi nelle mani di Dio. Così – scrive L. Palma – “sarò anche da Dio senza riparo” (ivi). Appartenere al viaggio è più che viaggiare: “Amica tu non sei del viaggio/ se il viaggiare ti coglie a denti stretti”(pag 22). Chi appartiene al viaggio ha rinunciato a “nidi caldi”, né addolcisce il trascorrere del tempo.

C’è una “pista battuta” in “un’altra stagione” (pag. 26) legata alla neve e all’infanzia. Essa evoca l’innocenza quale precondizione della fecondità spirituale. Ora però, dice l’Autrice, occorre confrontarsi con altri vissuti, così che quell’innocenza, fatta adulta, sia feconda “in una spianata di tempio comune” (pag. 26), cioè in un confronto aperto tra le religioni.

Il sentimento di perennità “dentro il Wadi” – fiume, in tempi remoti, ora quasi sempre in secca – pone alla presenza dei demoni che hanno rapito l’acqua e degli angeli che ne controllano il sonno; allora “gli occhi affondano nei millenni” ed è scorrere in immagine “con l’acqua sul palmo del fiume/ verso una morte inesistente” (pag. 28). La morte inesistente, forse per la metempsicosi – “so che la morte/ è buona/ aiuta il mio ritorno” (pag. 90) – rende immobile il tempo sullo sfondo dell’eterno ritorno. Si possono comprendere, allora, le parole di Gialāl ad-Dīn Rūmī, poste in esergo: “Tutto è uno, l’onda e la perla il mare e la pietra… Nulla di ciò che esiste in questo mondo/ è al di fuori di te/ Cerca bene in te stesso/ ciò che vuoi essere poiché sei tutto”. Monismo e panteismo sono uno dei poli di questa poesia mistica: l’Uno-Tutto di ascendenza orientale, induista-buddista; l’altro polo è il Dio-unico-trascendente delle religioni ebraica, cristiana, mussulmana. Nelle religioni occidentali l’Uno-Dio va separato dal mondo naturale e storico, salvaguardato dalla responsabilità del male attraverso il creazionismo. La distanza ontologica tra le creature e Dio non schiaccia la libertà umana. Direbbe Tommaso d’Aquino: il male non può essere in Dio, senza contraddirne essenza e esistenza; il male morale o è difetto o è abuso di libertà, che è pur sempre ciò che dà all’uomo dignità e grandezza. Forse cavalcando quest’onda metafisica, che ha pure implicazioni mistico-ascetiche, L. Palma si dispone – “Protesa a sondare un alto/ più alto”, “preghiera su preghiera” – “a volare raggio su raggio”(pag. 79)… “Nella preghiera del silenzio – prosegue L. Palma – l’anima allungo/ a forare l’azzurro/ il qui di me è là/ disincagliata” (pag 84).

Andare verso “l’alto”, ma anche verso “l’altro”, è ancora trascendere. L’apertura al diverso, però, non ti libera dal tuo passato: “l’odore” dell’altra “cultura ti rimane addosso”; ciò – dice la poetessa – “non è una buona notizia” (pag. 30). I testi esprimono aspirazione e difficoltà: “Volevo seguire il bramito/ il passo ritmato dei saggi/ la gabbia aperta di Allah/ il pensiero senza confine/ abitare un nomade sangue” (ivi). Le aperture e gli ostacoli conducono sincronicamente alla sacralità della natura in cui si percepisce il divino: “annuso una lingua profumata/ un tabernacolo d’orto/ genuflessa” (pag. 31), ma l’impressione d’inadeguatezza non abbandona chi vorrebbe essere come Gialāl ad-Dīn Rūmī che annienta l’ombra nella luce tra le danze (cfr. pag. 33).

Il deserto offre percezioni di sottrazione di vita, quantunque in esso se ne mostrino preziose tracce: una salamandra fulminea nel suo apparire e sparire come barlume d’acqua… “La sabbia sferza la sabbia” (pag. 35), spariscono altre tracce, “le orme delle volpi”, e la vita sembra “timbrata sul nulla” (ivi). Mancano alberi rami acqua, perciò un incontro con una donna può confonderti quando la vedi stringere due bottiglie ricevute dalle mani di chi può donarle (pag. 34). Tutto è indigenza, anche Dio si presenta nel deserto in esperienza privativa “da integrare” (pag. 36). Il deserto, sempre uguale a se stesso nei millenni, trascina fuori dal tempo anche chi lo visita, tanto che la poetessa può chiedersi: “quando davvero sono nata?” (pag. 37).

Da pagina 38 ha inizio un quasi poemetto sottoinsieme di poesia civile, che giustifica il titolo della silloge: Ingiurie e silenzi. Ingiurie alle donne in nome di una religione che sacralizza l’arbitrio maschile nelle forme di un dominio onnipervasivo nel pubblico e nel privato. L’oscuramento del corpo, attuato con il burka, configura oppressione e isolamento: un carcere ti viene cucito addosso. L’esperienza di indossarlo, da parte di L. Palma, risulta drammatico. Le aperture verso il mondo islamico e l’uso del linguaggio lirico, allora, non impediscono l’affondo etico/critico: “nella custodia del burka/ non un canto a salire o parola/ né il breve di un sorriso/ (…) non sarò mai fiore/ né nome mai sarò/ su questo nero foglio/ di solitudine” (pag. 39). Le donne sperse, negate nella loro differenza, sono raggiunte dalla poetessa attraverso l’identificazione: “come vorrei sentire il vento/ che mi profuma la pelle/ il sole struggermi le gambe/ e sentirmi oceano d’astri/ assaporarne il canto” (pag. 41). La donna “dentro il suo burka sepolcro”, occultata agli altri e a se stessa, è invitata a fuggire (pag 42); ella però “teme” perfino “l’anima strappata da un clic” della macchina fotografica (ivi); per altro “l’uomo può e sorride/ senza danno dell’anima/al mio occhio arricciato che scatta la fotografia” e “ne chiede una copia” (pag. 43).

Sentirsi scrutata come femmina da uno che sgrana rosari di preghiere, o guida un fuoristrada, fa porre domande: “cosa di più l’assorbe/ un’impronta di sesso/ o grani d’infinito tra le mani/ in rime d’abitudini (…) colgo nel qui/ dello sguardo che fruga/ – i matrimoni a tempo/ una notte un’ora/ a stemperare il fango/ tutto è lecito”. La fine emblematica del componimento è “prostituzione” (pag. 44). L. Palma si immedesima anche nella bambina costretta a un matrimonio prematuro: “occhi di bimba senza altrove/ nessuno a dirti – sono qui – né si fa strada il pianto” (pag 47).

Quando dall’Africa si passa al Medio Oriente gli strali si appuntano più su Israele che sul mondo arabo. L’Autrice non è affatto antisemita. Ci sono parole importanti di invito ad Israele a recuperare il senso identitario, etico-religioso della sua storia: “chiarezza d’altro/ Israele/ tu che scalavi il cielo/ tu sola puoi il traghetto/ osa Israele/ lascia al deserto la voglia/ di volarti/ accanto” (pag. 64). La poetessa condanna la violenza da qualunque parte essa venga: “La tua lama è in me/ in te la mia/ lama contro lama/ stralunata sabbia piegata/ al tradimento (…) l’approdo/ è disamore/ e un galleggio d’uguale/ sangue” (pag. 63).

In due testi c’è la rimemorazione del crollo delle “torri gemelle” di New York, della tragica risposta di rabbia dell’Occidente e delle reiterate ritorsioni islamiste: “settembre in fumo rabbia/ di città verticali che sbrigliano/ luci su milioni di stracci” (pag. 46); e a pag. 57: “Bestie di fuoco/ a conficcare torri/ un rapace settembre/ (…) la pace/ mitragliato ha bugie/ esploso vendette/ morti addestrati a fare/ i morti/ e gli altri a vivere/ a metà/ in un deserto…/”. Quando c’è guerra – dice la poetessa – “è certo allora l’inferno (e…) si spengono le lingue dei poeti” (pag. 59). E’ tale la sofferenza di vedere miseria e morte che L. Palma si schiera con “i fanciulli di pietre e stracci”, che scagliano pietre contro l’esercito israeliano: “Miniera di pietre/ questo deserto di pietre/ di cuori spaccati/ clamore di pietre che piovono/ da fanciulli puliti di cuore/ steli cresciuti tra le pietre/ erica di paura di fame” (pag. 69). La pace è necessaria. Il suo nome – dice L. Palma – va bagnato “sillaba su sillaba (…) che il guscio schiuda e non rimanga sogno” (pag. 56).

Le poesie civili sono intervallate da testi e versi che ritornano ai motivi di meditazione preghiera amore: “Prodigo è il vento/ di pure forme dove/ m’accelero d’amore/ come il seme che per decenni/ dorme/ (…) si fa strada il nomade sorriso/ in attesa perenne di miracoli/ nel cielo si fa strada/ esploso di verde (…) scivoli assoluto dentro me/ fiato dell’universo il tutto e il niente.” (pag. 70). Finisco con una citazione di un componimento biunivoco dedicato a tutte le madri che perdono un figlio e nell’essere anche invocazione-atto-di-fede in un percorso nuovo a Maria madre di Cristo: “Torna madre/ sotto la croce ad esser madre/ di tutti noi (…) non ho più madre/ ma qua nella tua casa/ di sabbia e luce ti sarò figlia/ a te che piangi il figlio/ tu sei il senso io ti conosco/ solo da te inizierà il percorso nuovo” (pag. 92). Grazie, Leda.

DON PIERLUIGI DI PIAZZA- CENTRO DI ACCOGLIENZA E. BALDUCCI DI ZUGLIANO (UDINE)

Ho letto le poesie senza aver forse il tempo necessario per meditare perché in questi giorni sono coinvolto molto come Centro da quello che sta avvenendo in Italia che secondo me nel libro è accolto, ospitato. Non voglio strumentalizzare i passaggi della poesia però ci sono riferimenti al viaggio e a situazioni esistenziali che certamente trovano eco in questa reciprocità e specularità nella poesia. Leggendo il libro ho ripensato anche a quello che nel mio percorso spirituale, umano, culturale ha rappresentato e rappresenta la poesia. La poesia esprime sempre la dimensione misteriosa, ineffabile che si mescola alla concretezza della vita. Quell’orizzonte alto che raccoglie il lato contingente, l’impegno e il fare, però mette insieme anche l’essere profondo, la contemplazione. E’ vibrazione dell’animo che poi si esprime con parole che sappiamo sono diverse anche nelle diverse composizioni della poesia a seconda della sensibilità di chi le esprime. In queste poesie ho colto alcuni aspetti. Ho colto il viaggio, questo viaggio della vita, viaggio che è dentro di noi anche se non ci muoviamo, perché se siamo immobili dentro di noi, c’è la indifferenza, la staticità, è come la premessa al morire interiore. Il viaggio dentro di noi e fuori di noi che è un viaggio concreto, quando ci si sposta qui e in altre parti del mondo. E’ anche un viaggio immaginario, simbolico. L’essere in viaggio è tratto caratterizzante della nostra vita perché l’essere in viaggio significa osservare non solo con gli occhi esteriori ma con gli occhi dell’anima, del cuore. Viaggiare se non si è turisti consumisti, è sentirsi interpellati, porsi in ascolto delle persone, degli ambienti che non sono mai solo fisici ma antropologici, sono il segno della vita, della relazione. Osservare ed essere interpellati dall’ambiente, dalle relazioni, dalla storia che è come segnata dentro agli ambienti che non sono solo fisici e geografici. Qui in queste poesie emergono gli elementi dell’ambiente vitale di questo viaggio. Il viaggio. Conoscere se stessi, conoscere la vita, l’ambiente, tutti gli elementi che compongono la storia delle persone, delle comunità che compongono il pianeta, anche quello del deserto. Voglio esprimere ciò che ho nel cuore. Non so se avete visto questo ragazzo che è venuto a chiedermi qualcosa. E’ un ragazzo del Sudan e io gli ho detto che è un fortunato perché se era sulla barca rimandata indietro mai sarebbe arrivato in Italia ed è un rifugiato politico, sarebbe stato respinto, considerato come un criminale. Quello che è avvenuto in questi giorni in Italia ha passato il segno. E’ un passaggio storico gravissimo quello che è avvenuto in Parlamento. Si finirà che neppure un bambino potrà essere registrato. Si crea una categoria di bambini inesistenti. Nell’ Italia del 2009 si creano situazioni di questo genere. Il viaggio di centinaia di migliaia di persone. Il viaggio ha caratterizzato decine e decine di migliaia di friulani nel mondo. Nel libro sono risuonate dentro di me tutte le allusioni, dall’ambiente all’amore, le dune, i corpi, i bambini del mondo, quelli invisibili e quelli presenti nell’itinerario del viaggio, la condizione dei bambini, la dimensione spirituale, i baci, la preghiera, il rimando agli affetti, le effusioni, il deserto con tutto quello che evoca di molto fisico, il luogo della prova che chiede esperienza, del silenzio, della meditazione. L’esperienza di ragazzi che sono qui al Centro Balducci, ospiti, che hanno attraversato il deserto del Sahara, hanno testimoniato in un Convegno all’Università. Hanno detto che è incredibile perché vedi una montagna e dopo un po’ non c’è più, è sparita, è da un’altra parte, è un paesaggio irreale, è camminare in una situazione che sembra irreale. Dentro il viaggio ci sono le situazioni più drammatiche, le guerre, ci sono le disperazioni che portano a essere kamikaze, avere della vita una tale percezione per cui portare la morte anche attorno a sé perché si è subita la logica di morte non interessa perché vivere o morire, se stessi o gli altri, non vale più, quindi si può anche portare la morte agli altri morendo perché si è vissuti dentro alla violenza. C’ è questo rimando, tutti elementi che dalla poesia tornano alla realtà perché la poesia emerge dalla realtà. Ci sono le indicazioni alla chiese, alle moschee, ai templi religiosi, a questo rapporto continuo fra il cielo e la terra, questo poter guardare al cielo, alle stelle, ritornano tante volte le stelle, però camminando per terra, questa dimensione della corporeità, della spiritualità, della terra e del cielo, del camminare con i piedi ben piantati per terra senza però togliere lo sguardo dalla profondità del cielo. E c’è anche Gerusalemme dove in questi giorni c’è anche il papa, dove c’è stata questa riflessione su un muro che separa invece di risolvere, perché i muri non risolvono mai i problemi, la storia ci insegna. I muri separano le comunità, le persone, determinano problemi. Quando i muri si abbattono si può iniziare a risolvere i problemi non quando si erigono. E ci sono due frasi con cui vorrei concludere questi frammenti di riflessione. E’ sorprendente passare dalla realtà alla poesia e poi dalla contemplazione, dallo spirito della poesia tornare alla realtà: “La sicurezza non è l’insicurezza degli altri” ho letto. Com’è vero! La nostra sicurezza non può essere l’insicurezza degli altri. Allora anche la questione della sicurezza come viene evocata oggi nel nostro paese, se diviene insicurezza per tanti non è più sicurezza, è privilegio di alcuni e insicurezza per tanti. E poi l’altra frase che mi ha fatto meditare in particolare, come sia importante far entrare la mente nel cuore. Noi ci siamo vantati tante volte e anche giustamente dell’illuminismo, della razionalità e guai se non ci fosse in noi esseri umani, però io penso tante volte che c’è una razionalità malata che è piegata alla logica del dominio, del potere, della violenza, delle guerre; anche i nazisti usavano la razionalità, anche il fascismo, tutti, hanno usato la razionalità per il male, anche per circoscrivere un campo di concentramento, si era messa in atto una razionalità perfetta, anche per i forni crematori. Una razionalità piegata al bene, rivolta al bene è un conto, una razionalità finalizzata al male rende l’uomo perverso, usando la ragione. Quando la ragione, la mente entra nel cuore, c’è questa mescolanza tra cuore e ragione, un cuore sensibile che sente l’altro, la sua presenza, ecco che allora una mente guidata dal cuore e viceversa, questa combinazione, questo intreccio può rendere l’umanità più umana. Queste due frasi penso che condensino un bel messaggio in questo libro. Questo ho meditato leggendolo.

Non ho domande da fare a Leda mi vengono solo considerazioni, mi affiorano sensazioni… da lettrice.

Davanti alla sua poesia che sento come un CANTO, prendo coscienza di essere una piccola e incongrua artigiana della scrittura. Credo di averglielo detto quando tre anni fa mi ha regalato, fresco di stampa, questo poemetto con la dedica “Perché la mia voce galleggi insieme alla tua…”

Mi piacerebbe tanto ma è difficile che succeda. La mia non ne ha la potenza, i registri, i colori, la tecnica, senza contare che, ultimamente, è una voce strozzata.

La voce di Leda è forte e lei sa come farla vibrare, farla diventare refolo e carezza. Sa come condurci nel suo viaggio, facendoci partecipi di una felicità di scrittura che pare nata da un rapimento, ed è tanto più sorprendente in quanto non perde di lucidità, di nitidezza, di sapienza nella costruzione del ritmo.
L’incontro con “Ingiurie e silenzi” non lascia indifferenti. Il viaggio nel deserto, aggrappati alla sua voce è un’esperienza che non vorresti finisse. Se ne resta affascinati, perché è un viaggio della conoscenza.
Leda entra, ti fa entrare nello spirito dei luoghi attraverso la sua capacità di ascolto e di relazione, il suo sguardo attento e solidale.
La sua ricerca di autenticità, di essenzialità diventa la tua ricerca, il suo viaggio dello spirito, il tuo.
Da donna che scrive e si interroga sulla scrittura femminile mi sento di fare un ulteriore apprezzamento per lo sguardo rivolto alle donne:
Scrivi come si spegne novembre e tutti i mesi, scrivi che non sarò mai fiore, né nome mai sarò…
E Leda leva il suo canto che celebra la femminilità negata… come non farsene attraversare?
Come non esserle grata, di queste immagini dense, intense.
C’è di che ammutolire davanti a occhi sminuzzati/ di grata/ frammenti d’umano, brandelli di vita., davanti alle ingiurie fatte a quelle madri violate nel loro essere madri!
Leda però non sta in silenzio, si fa carico di questo dolore, lo accoglie e lo fa diventare emblema del dolore universale.
Come non condividere il suo sentimento, come non essere contagiata da questa capacità di amare?da questa empatia tutta femminile?
Il suo torna madre/ sotto la croce ad essere madre/ di tutti noi davvero mi turba, mi porta oltre la cortina delle mie angosce, forse mi riporta un germoglio di speranza.
In fondo in ogni libro si trova ciò che si cerca. Io evidentemente cercavo una voce cui aggrapparmi per galleggiare… appunto.

Leda da Vilia Candido

Benvenuto tu sei viaggio perché
perdo di vista con te accanto
il tempo
lo lascio ecco avariare
tra i rintocchi del pendolo
non mi rovescia oggi
gli assilli di una vita
quotidiana
un’unghia d’avvenire fruga
l’atlante che caldo gira
in un cavo di mano
su un punto spiuma- un riposo
di giallo-
quanta saggezza assorbo tra le mani
quant’anima si allarga
si schiarisce

Nel buio fitto
che precede l’alba
e precipita
l’insonnia nel caffè
mi srotoli
viaggio d’altre veglie
una livida paura imbavagliata
ma a sorsi il mattino
entra nel corpo
tracce di usignolo
parole accese di commiato
che dal cilindro ora
esce il chiaro
dell’anima e del cielo
in un Uno che a te
viaggio
devo

Il verde raggio che per primo
irrompe
da un sole che trabocca
gli occhi arpiona
-ed ero grumo rosso
squarciata melagrana-
accerta la promessa
prima vaga
che tu viaggio condurrai
il mio io
al sicuro alimento d’acqua chiara
dove l’ampio respiro beduino
s’abbevera dissolve
in continue morti
di sé ben deste
con le stelle in punta
d’anima

E’ fredda la sabbia di notte
è neve che spalmo sul viso
mi metto supina m’imprimo
resterà l’odore
di un’altra cultura
non è
una buona notizia
volevo seguire il bramito
il passo ritmato dei saggi
la gabbia aperta di Allah
il pensiero senza confine
abitare un nomade sangue

Stormo i burka ala contro ala
nuvole in piena nel suk
-che a tocco lo stretto
dei vicoli-
venditore più venditore
m’invitano a comprare
piega dopo piega lo infilo
ed ecco m ‘avvolgono paure
gli occhi sminuzzati
di grata
frammenti d’umano
capogirano
brandelli di vita
un sordo di voci
consumo inesistente
quel poco di sabbia
che ai piedi barcolla
s’incollano i pensieri
come se mai
consumati
o crollati d’inutile
non transita il sole
il mio corpo
e ogni sua stagione

Non un raggio mi colora di sole
avvolta
nella custodia del burka
non un canto a salire o parola
né il breve di un sorriso
scrivi come si spegne novembre
e tutti i mesi scrivi
che non sarò mai fiore
né nome mai sarò
su questo nero foglio
di solitudine

Rade la duna il rosso del tramonto
la sua lingua il sapore
lungo la coscia di polpa matura
fanno l’amore il tramonto e la duna
senza pudore la duna e il tramonto
pian piano la copre la inzuppa di luce
poi sfranto d’amore pian piano svanisce
linea leggera fra ricordo e oblio

E’ spada stanotte la luna
che snuda il coperchio di me
-che cosa di me si è salvato
nei giorni del terrore-
settembre in fumo rabbia
di città verticali che sbrigliano
luci su milioni di stracci dove
strisciare si legge esistere
e la luna è il colore dei morti
che brillano nudi
nelle pozzanghere
non punteggia parole la sabbia
niente di umano da dire
l’argento alto dei sogni
che mi sbucciavano gli occhi
quel tanto da fare nelle mie mani
perché a crescere s’affrettano
torri
a milioni gli stracci
il mio spicciolo di vita
un regalo stanotte
alla luna

A fondo premi i piedi sul vasto
della terra ch’eppure
s’intaglia d’estinzioni
novembre in lontananza
dove planano i morti
sul palmo delle mani
di fiori arcuate
di preghiere
ora vado per altri sentieri
di morte che il cielo aggancia
con stormo di vergini
regalo di Allah
ragazzi annidati
di furia
profughi dissanguano
in fogne
che chiamano campi
a strisciare d’assenza
fili spinati l’indice
pronto al grilletto
l’altro di città o colonie
nemico l’altro che
rombo di muro
a decidere chi
novembre di tutti gli approdi
dove si arrendono anche
i pensieri dove
solo sabbia al vento e noi
giardino
novembre che in anni
t’allunghi
del nostro ruminare
indifferenza
dove gli occhi ciechi
e notte
l’uno all’altro

Dileguano le stelle frustate
dalle bombe
è certo allora l’inferno
quando la ragione decide
di infeltrire
irrompe l’wadi lacrime
e sangue
si spengono le lingue dei poeti

Brace sulla sabbia
e tu poeta accanto
il tuo soffio è un flauto
che rende fiamma
le note
metti in rima quel tè
batticuore di verde e
frangia di sole nella brezza
di foglie
si può tentare il cielo
a portata d’anima
dimmi
dove conduce il tuo sguardo
affacciato oltre il mio
e il deserto quando
tradisce
qui
tra brace e parola
la tua mano in offerta
come se fosse il tè
acqua di vita

Ti guardo Israele
stretti i pugni
di pianto
il tuo coraggio
violenza
a inarcare l’anima
d’orgoglio
senza farfalle d’umano
volere
lontano l’antico tempio
distrutto
nuovo il muro che umilia
separa ad armi puntate
trascendere è ridurre le orme
di quell’io di guerra
odioso
chiarezza d’Altro
Israele
tu che scalavi il cielo
tu sola puoi il traghetto
osa Israele
lascia al deserto la voglia
di volarti
accanto

Miniera di pietre
questo deserto di pietre
di cuori spaccati
clamore di pietre che piovono
da fanciulli puliti di cuore
steli cresciuti fra le pietre
erica di paura di fame
cuori
dai chiusi battenti
il mio
che perdo ogni istante
per voi
fanciulli di pietre e stracci

Sono terra fiori alberi stelle
animali amici morti tutto
il mio natale è questo
sono qui deserto nel tuo giardino
dove balsamo raccolgo e mirra
il latte bevo del conoscere
l’infuso dell’amare
dove tutto ho conosciuto
sofferto
stordita di stelle di silenzio
me ne andrò
a svegliare il giorno
dell’amato
per non vagare ancora
dietro i miei lati oscuri
oh amato che mi scavi
di era in era
ad ascendere
l’ultima croce di tempo

Non venire cielo sulla terra
stai lontano
non venire dammi retta
mutare dio ogni giorno
ogni giorno raccogliere
un dio morto
finché saremo degni di noi
da soli

Il vento ha sbrinato le nubi
guarda
è così chiara la notte
che si può fare girotondo
con la luna
o stendere l’anima sugli orli
incustoditi
sentire vicina la più lontana delle voci
ti amo
perché domani si muore
o in questo istante

Madre ora puoi
a fil di sospiro sei vissuta
con il rosario al ritmo del tuo cuore
verso Gerusalemme pellegrina
a tua insaputa
fra lo sterminio del buon senso
a ritrovare di te la verità
e l’incontro con gli altri
ora puoi
far entrare la mente nel cuore
di chi si strofina nel ghiaccio
di un ospedale avvizzito
hanno guardato madre i tuoi cent’anni
di tempo non di grandezza
popolo del buio che non sa
che eri madre anima e cuore
che riannodato avevi gli occhi
di un bambino
raccoglierei tutte le acque del cielo
madre nei miei occhi
per ridarti il respiro sottile
come filo d’erba
ma ora sei là nello spazio
e diffondi nel vento la tua storia
anche di chi la terra ha screpolata
e non guarda la luna oltre il tuo dito

Qui la luna partorisce
pugnali
cinture di terrore
non liscia i fianchi all’amore
e i profeti pozzi seccati
mi chiedo
dove il ragionamento
il senso del tuo Dio
beffato
cosa ti manca ragazzo in briciole
dalla luna un miraggio?
Non sogni più l’impossibile
vissuti di passione i venerdì
in un giorno solo cosa
ti manca
ribelle al dissanguarsi
delle dune
alla fame che sbrana
alle differenze
di camicie sforacchiate
eccidio di terre
sono con te ragazzo in briciole
quando il diritto comanda e
necessità consiglia
ma io sono Quello che uccidi
tu sei Quello che uccide
questo ci manca
ragazzo

Torna madre
sotto la croce ad esser madre
di tutti noi
come la mia che ora
da sotterra sa
quanto c’è da sapere
parla
a questo Dio che promette
albe che non sappiamo cogliere
diglielo che a morsi
ci strappa la vita
tu che ogni deserto vorrebbe
come fiume
non ho più madre
ma qua nella tua casa
di sabbia e luce ti sarò figlia
a te che piangi il figlio
tu sei il senso io ti conosco
solo da te inizierà
il percorso nuovo
non più mine nel cuore
ma stelle a formare
ad ogni tuo respiro
per dono
e sia per noi conquista