La precisione del faro
ovvero Tat Twam Asi

La Vita Felice Editore

PrefazioneRecensioniIntervista

1. Nella letteratura si muove un mare di metafore e metonimie, di anafore e epifore, in breve una corrente di norme linguistiche, riflesso sonoro di una serie di significati esistenziali che l’esegeta provvede e sublimare e abbellire retoricamente, per renderli perimetrabili e offrirli con chiarezza al pubblico.
Non va dimenticato che la norma linguistica appare canonica e vincolante proprio in forza delle verità umane che sottintende, altrimenti si fabbricano monete a una sola faccia e si spaccia il discorso letterario per un feticcio di cartapesta da adorare sotto forma di libro.
Leda Palma cerca nei suoi ricordi d’antan, nelle sue impressioni del momento, nei soliloqui con la propria anima qualche credibile verità per restituire l’ombra almeno della bellezza e della complessità del mondo.
Sfumature di paesaggi mai del tutto esplorati, le tempeste rosso fuoco dei sentimenti, lo spazio specifico dell’umano amputato dalla morte, il trionfo di oggetti-simbolo e la nominazione pura delle cose segnano il fascino di questo libro composito, sacrale e profano che si sottrae alla consumazione immediata e si mette a viaggiare nella mente fino a farsi eco necessaria della vita.La precisione del faro (questo il titolo in questione) si presenta come una luce irradiata sull’amore universale e sul compianto funebre, sulla dilatazione e la contrazione del Tempo, sulla memoria e il naufragante oblio, sul gioco ottico di spazi lontanissimi e primi piani rivelatori delle più remote regioni interiori dell’individuo.
Leda Palma dimostra di aver raggiunto la piena maturità artistica e ci consegna un libro che slarga dai fondali di provincia (Pagnacco, il Friuli) all’India, dai ricordi infantili alle più recenti occorrenze di quest’epoca disgraziata. È tutto un succedersi di pieni e di vuoti, di oggettivazioni descrittive e categorie soggettive, di manierismi metafisici e magnifiche aporie, senza mai una caduta nel superfluo, o peggio nel sospetto di un romanticismo datato.
La precisione del faro può essere inteso come un esercizio di sobrietà sentimentale, un tentativo riuscito di rintracciare un luogo comune che contenga e legittimi il nostro immaginario collettivo (“Tutto sta/in una poesia spingono le parole/prendile saldi alfabeti d’acciaio/smuovono sogni lontano da tutto”).
Leda Palma, malgré soi, sta nel futuro, sebbene la sua poesia sembri parlare quasi esclusivamente al passato. La sua scrittura si configura come azione, frizione di storie disparate, contrasto dialettico di contingenza e necessità: sogno contro sogno, fuoco contro fuoco, anima contro se stessa.
Nella caligine notturna e nei mattini lattescenti, quando le montagne imparano a rialzarsi sull’orizzonte, le pagine del testo fanno risuonare greggi veloci, becchi di colombi, grumi di passeri in alto, lepri attardate sui sentieri, i rumori metodici dei contadini, le corse a volo d’aquila dell’infanzia: nient’altro che parole a sprazzi tra il caos della morte e il chiasso della vita.
Alla vista del suo doppio (il personaggio lirico che dice io), Leda Palma con straordinaria acutezza infila un concetto dopo l’altro, netto e preciso, allora di nuovo torna a regnare la speranza, il segno indiscernibile di una riconquistata umanità.

2. La precisione del faro si snoda attraverso otto suggestivi e articolati portolani terrestri.
La prima sezione, Geologia del ritorno, mostra come la machina poetica scava dentro la torbiera degli anni, enumera gli strati e le vicissitudini esistenziali, definisce e diversifica. Si avvita dentro le spine della nostalgia e frantuma le pietre, l’oro dei tramonti, il desiderio di rivivere il passato.
Una scrittura inventiva, a tratti incandescente, venata di surrealismo, scandaglia il Tempo, fa riverberare in sé l’antico che nutre e dilania. L’infanzia perduta viene concepita come luce o spada, segno fiammante e ossessivo che si ripete e abbaglia inscalfibile.
Leda Palma sa come esteriorizzare i ricordi remoti, le cantilene, le sorprese, il segreto che le stagioni portano con loro (“Si consegna la parola/al talento della terra/ch’è mutamento/scaglie di futuro/viaggio liquefatto/di mistero carezza se solo/chiudo gli occhi al silenzio/dove il respiro nasce e orla un colmo di sapere”).

Dinanzi allo strazio della fine e al corrompersi delle cose non manca di riverberarsi un lucore, anche se le domande e le risposte restano mute.
Nella seconda sezione, Attraverso la morte, l’autrice propone in forma drammatica uno struggimento acceso, un vasto pensamento sui misteri dell’esistenza (“…Uno sguardo/ancora appesa l’ultima lacrima/ti scorterà nell’eterno chiusa/la tua trama di madre dammi/un gesto colmo di salvezza a/chiudere le ferite come rotaie/deragliano ad ogni buonanotte”).
È la morte vista senza lente, a distanza ridotta, mentre i particolari e le impressioni ricapitolano il dolore di chi patisce e di chi è spettatore. Una febbre amara si impadronisce di questi testi, eppure la morte non è vissuta solo come perdita, ma anche come affinamento spirituale, processo di maturazione del proprio io.
Leda Palma impara a scendere dentro l’archetipo della fine, all’interno della tensione più segreta del fatto biologico e spirituale. Per paradosso la morte diventa sentimento della continuità: al recidersi dell’esistenza si contrappone la riaffermazione avvolgente e divina dell’essenza umana (“L’angolo del mio occhio confina/con lo stupore del tuo gesto proteso là dove/si addensano le nubi che fluiranno/con l’ansia pari alla tua di trasmettere/qualcosa che solo dentro dio/e mai fine il silenzioso lamento/la dolce sottomissione anche/se il lago alpino s’è sciolto sul tuo viso/e per un attimo lava il tempo della morte”).

Un astio minaccia il passato, un fosco risentimento per il tempo perduto come se ogni anno fosse una lastra e sulla lastra non fosse inciso alcun segno: i giorni, i mesi, gli anni sembrano pietre sospese a mezz’aria che si spezzano e sfarinano in parole.
Nella terza sezione (Il tempo dà luce) Leda Palma raccoglie tutti i frammenti e li distribuisce nelle sue pagine: la polvere nera del lutto e le trame cristalline della neve, il polline che cade dalle corolle e il fondo plumbeo della solitudine.
A mezzo fra notte e luce, fra memoria e oblio, il Tempo conficca e toglie le sue spine profonde nella carne. Il Tempo giunge e tocca e i passi di chi scrive si muovono sulle dure pietre del presente, dure come sono le ore gelate, quando invano si cerca il calore e l’intimità della vita e non resta che sollevarsi e fluttuare tra i flutti remoti delle stelle (“Di ricordi il filo della vita/ad annodare per un attimo/mentre altercano le rondini e/un balenìo di nubi distese//su lenzuola bagnate d’addio/disperdono la paura della notte”).
Si percepisce in questa terza sezione una verità che poco a poco viene a galla, vale a dire il destino che ci convoca ad ascoltare il dolce e lamentoso rumore della vita.

Al giro di boa si apre la quarta sezione (La presenza dell’anima), nella quale vengono modulati versi di raffinata profondità e bellezza. Pur succedendosi figure diverse (Lara per i suoi diciotto anni, Giannina, un amico suicida) sembra che le precedenti armonie (vita/morte, casualità/necessità, relativismo/assolutezza) si siano sciolte per ricomporsi in quella superiore armonia degli opposti che è l’anima.
Rimembranza e dimenticanza, luce e tenebra si rivelano complementari, non antitetiche: si tratta di una contrapposizione dialettica che solo il dettato poetico può superare e conservare (“No nel mondo ancora/non c’è un orecchio/libero ad ascoltarti/mentre ti sleghi e/rendi deserta la parola/No le mie forze raduno/per esserti soffio/non consegnare questa primavera così/nera di temporale così/violenta di dolori non puoi/sbagliare memoria”).
Nel discorso poetico di Leda Palma l’anima diventa sinonimo di bene supremo, segno assoluto di identità etica, meravigliosa trasparenza di fronte alla brutalità delle cose materiali, opache e soffocanti.
La misura breve dei versi, le frequenti spezzature e gli enjambements si stagliano sulla pagina come le guglie di una cattedrale gotica, fino a raggiungere l’apice della più grande intensità espressiva.

Quando un colore cupo si stende sulle nazioni occidentali (i libri ridotti in cenere, i valori infranti, l’umanità violata), rimane l’ostinato ottimismo dei poeti, la prospettiva di un futuro felice, nonostante tutta la polvere che copre i sogni e le utopie.
Leda Palma viaggia per avere di fronte a sé l’India, radiante di dolcezza e di mille contraddizioni (“bimbi nudi/ti prendono per mano/gallinelle di fango e/muco al naso ridono/con ogni palpito di vena”). Viaggia per incontrare di nuovo la fraternità, per sentire l’affetto di sconosciuti che vegliano sul suo sonno e sulla sua solitudine.
L’India, novella Terramadre (la quinta sezione), non è solo un contorno geografico, piuttosto un luogo non comune dove poter estendere il proprio essere e comprendere tutte le vite degli altri.
Anche se bisogna “spianare lo sterco/sui bordi d’entrata/alle mosche”, i pericoli della nostra società artificiale, i nostri assurdi scoraggiamenti non valgono nulla: quell’offerta spirituale e quel ritramare le fila del Noi recano un tesoro che accompagna a lungo, così la solidarietà riprende corpo, facendola spiccare contro le avversità e le porcherie del materialismo più bieco (“Già sapevo l’epilogo deposto/fra le labbra vertigine quando/d’un tratto m’hai donato il Noi”).
Questa è la lezione che si raccoglie da Terramadre: l’incontro con un mondo per certi versi ancora primitivo, ma capace di interrogare e inquietare la nostra indifferenza e insulsaggine.

Nel fango e nei silenzi colpevoli della vita quotidiana affonda un’ulteriore meditatio mortis, per chi non può più comunicare i doni della vita.
L’impossibilità dello scambio deposita nell’anima un sedimento indistruttibile di ricordi, di infinite nostalgie, di aspre fatiche che non ci saranno, di infatuazioni che non toccheranno mai il cuore.
Attorno ai temi della nascita e della morte (naturale e violenta) Leda Palma struttura la sesta sezione (L’amore sospeso), dove l’angoscia si impregna di malinconia e la forza tragica dei versi giunge a produrre un’emozione originale (“Sapevo quel giorno che/avrei perso il tuo nome/i gesti no i gesti sul mio corpo/mai li avrei scordati né le parole”).

Tra il Mediterraneo, Haiti e gli scampoli di vita di un clochard la voce dell’autrice si dilata e poi ricade sulla superficie delle cose e degli eventi: qui indica varchi e precipizi, il brivido della vertigine e il dolore dell’emarginazione. Questo Congedo della viaggiatrice di passo (la settima sezione) ci affida l’anelito a spingerci avanti, a non arrenderci alle tristi evidenze del presente, a spostare in avanti i confini delle nostre abitudini e dei nostri pregiudizi (“Il prima rimarrà per sempre/sconosciuto e l’onda lunga fino/a noi nel chiuso dei cuori/a imprimere memoria degli errori”).

La raccolta si chiude con Il cammino dell’Illusione (l’ottava sezione), che contiene un solo testo, la cui complessità architettonica e energia espressiva non temono il deragliamento dei significati, anzi testimoniano la sperimentazione riuscita di una incredibile apertura di senso. Il cammino di Maya, questo il titolo explicitario, rappresenta una vera delizia per la mente e per i suoi inderogabili meccanismi (“La canna omicida di luna lunità che pare sciolta e leggera ed è/maglia imbottita di sogni senza un appiglio senza chiodi ai rami/incoltivata sostanza amore/sempre a mezz’asta/luna mia gemella d’incertezze”).

3. La precisione del faro si dimostra prova irrefutabile di come sia ancora possibile intonare un canto disteso, orchestrato con le cadenze solenni dell’epica e con i movimenti di un pensiero sottile, raziocinante, analitico.
La tipologia metrica risulta ispirata a una moderna classicità: sequenze di endecasillabi e prevalenti ipometri vengono disposti all’interno di strofe regolari, oppure dentro testi monostrofici da leggere a perdifiato, gonfiando i polmoni come per un’apnea.
Leda Palma lega in un unico fascio espressivo versi levigati e increspati, corrosivi e pacati, lancinanti o addolciti da un pianto strozzato in gola.
I temi vengono enunciati, variati, rastremati: sfilano in un paesaggio prosodico senza punteggiatura, fluidi e magistralmente versatili con la loro cadenza litanica, salmodiante, sacrale che oggi sembra non essere più di moda.
Il respiro interno delle frasi genera un effetto d’insieme sostenuto e lento nei testi a più strofe, quasi febbrile nei testi monostrofici da cui germinano forti richiami e sicure tangenze con la tradizione lirica italiana e europea.
L’invenzione metrica e la disposizione sintattica procedono di concerto, innervate entrambe da una serie poderosa e mutevole di accenti e figure seduttive per ricucire il sacco rotto della realtà.

4. Non si può raccontare un libro di poesia. Si possono tessere fili di lana e affidarli ai lettori, affinché li tengano ben saldi nelle mani mentre si orientano nel labirinto lineare e ingarbugliatissimo dei versi.
Nata accanto alle campane, gli occhi impigliati tra i rami di un bosco, capace di percepire l’eccelso, Leda Palma, la figlia del grano, ci insegna come si fa a veder cadere le montagne dietro la luna. Ecco perché La precisione del faro rompe con i suoi bagliori le scurissime tenebre della postmodernità.

Nereidi, seconda decade di marzo 2016

Donato di Stasi

Cara Leda, il tuo Tat Twan Asi ci ha, naturalmente, sedotti stimolando l’immaginazione ad affacciarsi in dimensioni inattese del mondo e della lingua poetica attraverso le atmosfere e lo stile, e anche, di momento in momento, liberando dalla pigra abitudine alle analogie e alle strutture canoniche. Viva la poesia!

Noemi e Emerico Giachery

Cara Leda, per la ricchezza delle suggestioni e dei rimandi il tuo libro meriterebbe una lettura accurata e analitica che in questo period non ho modo di concedermi.
O forse no, mi sbaglio, forse i tuoi versi vanno accolti nel complesso delle emozioni che offrono, al di là della minuziosa comprensione.
Certo sono versi forti, perfino violenti, eppure teneri, sempre misericordiosi (laicamente).
Grazie per il tuo lavoro incessante sulla parola, per l’attenzione che mostri verso gli altri, grazie per l’immagine di tito.

Marina Giovannelli

“LA PRECISIONE DEL FARO può essere inteso come un esercizio di sobrietà sentimentale, un tentativo riuscito di rintracciare un luogo comune che contenga e legittimi il nostro immaginario collettivo”: così scrive Donato di Stasi nella sua approfondita prefazione al libro di versi di Leda Palma, definendolo “libro composito, sacrale e profano”.
Leda Palma, friulana trapiantata a Roma, ha pubblicato poesia e prosa, ma nel corso della sua esistenza lavorativa si è occupata soprattutto di teatro e televisione, come autrice, regista e attrice.

Questo volume, intenzionalmente mirato già dal titolo a un obiettivo di illuminazione e schiarimento – interiore ed esteriore-, ci appare giocato sull’abbandono immediato allo scorrere del tempo, tra presente e passato, memoria recuperata e attenzione all’oggi. Le otto sezioni che lo compongono, infatti, oscillano tra l’idillio nostalgico, la testimonianza di fede, il resoconto di viaggio e l’omaggio affettivo a figure amicali o familiari, rimanendo sempre e comunque fedeli nello stile a un rincorrere fluido di suoni e immagini, privo di punti fermi e tassative cesure.
“M’insegue il paese”, dichiara un verso della prima sezione, Geologia del ritorno: e Pagnacco, paese nativo dell’autrice, rimane dopo tanti anni radicato nel ricordo, definito in particolari concreti (le campane della chiesa,, gli scuri e il focolare della casa, la polenta che “sfrigola” sul focolare, il camposanto, il torrente e i prati) come nelle descrizioni degli animali (conigli e mucche) e degli esseri umani (le suore, “i preti laidi vecchi”). Lo scavo sentimentale nella memoria produce inevitabilmente il recupero di presenze, e ad esse si dedicano versi commossi e grati, tesi a riscattare nella memoria disattenzioni o trascuratezze personali e collettive: la morte e la malattia di amici e parenti non è patita solo come dolore, ingiustizia, inadeguatezza, sensi di colpa, ma conduce a una verità per troppo tempo rimossa, temuta.
Al di là di ogni fine va intuito un inizio, che non si spiega solo come consolazione riparatrice o speranza illusoria, ma come effettiva realtà di sopravvivenza: ” la grandezza della vita/ del tuo cielo aperto più nulla solo/il mistero del cuore smontato/ pezzo a pezzo/ricostruita e in pace finalmente/ nell’avemaria del momento/ per il tuo bene/ o il mio”. La madre, Silvana, Maria,, l’amico suicida, il poeta carnico Tito Maniacco squarciano il buio della notte definitiva con il loro luminoso riaffacciarsi al ricordo, nelle sezioni ATTRAVERSO LA MORTE, TEMPO DA’ LUCE, LA PRESENZA DELL’AN IMA; mentre nelle pagine conclusive del libro Leda palma si apre a una attualità capace di aderire con empatia al mondo vivo, quello che soffre di povertà in India, o viene violentato nell’infanzia, o è costretto a inumane migrazioni (“Non danno scampo le tue labbra mare/fatto destino il tuo fiato deriva/ nel fitto delle braccia che/ pugnalano un dopo che non c’è”). Per concludersi infine con un poemetto polifonico (Il cammino di Maya), che intreccia visioni mitiche a rivisitazioni storiche, memorie personali a descrizioni paesaggistiche, intercalando anche graficamente i caratteri corsivi e tondi dell’immaginazione e della constatazione realistica: “luna mia gemella d’incertezze/ serpente della notte che m’allunga disinganni/ ho scritto applausi sulle foglie sipari gonfi d’ambizione/nel finale sempre una paura che tace”.

SOLO LIBRI, 6 settembre 2016 LIDA AIRAGHI

“Ho letto LA PRECISIONE DEL FARO” e devo dirti che la tua crescita vola ed è riuscita ad ottenere esiti davvero invidiabili. Il tuo linguaggio si è maggiormente raffinato ed essenzializzato e la profondità delle tue emozioni appare con evidenza, con forza e bellezza. Grazie del bellissimo dono.

DANTE MAFFIA

“Ho letto ed apprezzato LA PRECISIONE DEL FARO, UN LIBRO COMPATTO, di sicuro spessore poetico, dove c’è il ritorno alle forti radici friulane e il compianto per le molte persone amiche scomparse, ma anche la dislocazione nell’altra “terramadre”, quella indiana, luogo di proiezione spirituale, ma anche di un altrove di sguardi, di corpi, di sentimenti..
Il finale “Cammino di Maya” mi sembra che testimoni di una meditata consapevolezza del velo dell’illusione che ammanta noi e tutte le cose, laddove il cammino del vero sofopoetico cerca, oltre l’evanescenza dell’esserci, la substantia dell’essere. Una ricerca che può essere valida tanto a Pagnacco quanto a Bombay.

MARCO PALLADINI

Che scrittura interessante la tua, cara Leda; oltre alla densità di significato lo scavo, il lavoro sul linguaggio e la musicalità che ne deriva, notevoli davvero.

ANNA VALLERUGO

“Una bella composizione. Non facile. Sia per la struttura (s-composta: a volte più della poesia che della prosa), sia per la forma ( necessariamente ermetica, appunto, però così voluta e cercata da diventare sicura.) Mi è piaciuta molto l’esplorazione del bosco (pagg.25 e segg.)

GIOVANNI PIETRO NIMIS

2 marzo 2017

La precisione del faro di Leda Palma

Recensione e scelta di poesie di Maurizio Rossi

E’ stato detto: “La Poesia mi indica la strada per tornare a casa”: appunto un “faro” la cui precisione consiste in quella corrispondenza tra il Poeta e la sua poesia, evento non sempre scontato e spesso confuso con la “spontaneità” o con la “presunzione” di possedere la Verità (o di non possederne alcuna, che è la stessa cosa); Tat twam asi, completa il titolo della raccolta, dal sanscrito «ciò che sei»: come a sottolineare l’”onestà” della Poesia e della Palma in particolare.

Il titolo di questa raccolta è perciò fortemente evocativo, specie quando – e nella poesia attuale non sempre accade – si ha un mondo da evocare; mondo che si rivela nelle otto sezioni della silloge: Geologia del ritorno – che descrive le sue radici, la sua terra e la sua infanzia; Attraverso la morte- declinata nella sua concretezza, senza alcuna presunzione filosofica; Il tempo dà luce – sul tempo che dà colore non solo alle cose e all’esistenza, ma anche al sogno; La presenza dell’anima- “mistero” che riunisce in sé, il corpo, la mente, lo spirito; Terramadre, dove l’India non è solo meta di un viaggio, ma luogo di incontro autentico di esistenze; Amore sospeso – tra nascita e morte, dolore e malinconia; Congedo della viaggiatrice di passo – racconto di un’umanità violata e tradita dall’umanità e dalla natura; Il cammino dell’illusione – Cammino di Maya, un poemetto, quasi “canone inverso poetico”, “cammino sognante nella realtà”.

Verso libero, assenza di punteggiatura, enjambement, sono le forme espressive dell’Autrice, che dall’esperienza teatrale- oltre che dalla Vita – raccoglie luce e colore e suono da dare alle parole

Stagioni del corpo

Si schiacciano i giorni si confondono
crollano l’uno sull’altro l’estate
tra l’erba semina lucciole e gela
l’inverno tra le mani a primavera

fugge così l’autunno a scapito
del nostro corpo esposto all’esattezza
della morte si diramano i mesi
si urtano si confondono e noi

con i giorni scompigliati le ore
appendiamo al respiro preghiere
con le mani di tremore fioco sempre
più fioco a una spanna trovarmi il sogno

di volare quasi raggio di luce
spoglia di buio d’ogni spreco d’ore
una stagione in cerca che non muti
darmi la mano così onda il mare

Il corpo, la mente e il cuore, il sogno, il pensiero, le sensazioni: un tutt’uno con la Natura; mentre i ritmi del Tempo scandiscono il viaggio della luce che saetta nello Spazio, quasi indifferente nella sua “necessità”. E “accade” come in questa

Ogni primo mattino della Terra

Accade che una rondine dimentichi
la scienza del volo si scagli sul vetro
imprima l’anima di tenebre come
un trapasso voluto un’esatta viltà

Accade che io riassuma a notte fonda
ogni verità nella sua ala spezzata
e mi sorprendano vari nessuno a
ridere nel perfetto buio della mente

Accade che m’irrompa il giorno
a respirare vari tipi di no
un volano di rondini mi sfiora
vive le ali e cibo adatto alla fame

Accade ogni primo mattino della terra

Così come “accade” la malattia che “stupisce i gesti, rende imprecise le parole e nude le persone”, in un comunicare che è ancora prendere la mano “come bambine un tempo/ nella penombra del bosco”; anche se stavolta c’è chi non vede la mano e chi finge di non pensare al non vedere

Alzheimer

L’angolo del mio occhio confina
con lo stupore del tuo gesto proteso là dove
si addensano le nubi che fluiranno
con l’ansia pari alla tua di trasmettere
qualcosa che solo dentro Dio
e mai fine il silenzioso lamento
la dolce sottomissione anche
se il lago alpino s’è sciolto sul tuo viso
e per un attimo lava il tempo della morte
in ogni tuo respiro
in ogni tuo passo che più non cammina
nel mondo l’imprecisione delle parole
non si fa spazio la memoria se non
scolpita nell’infanzia cose persone
rimangono nude tra te e me senza nome
buie e il fiammifero ti brucia le dita
non ascolti non aggiusti il presente
non risali più lungo albe tramonti
lungo i baci dei figli e fingo di non pensare
che non vedi la mia mano prendere la tua
come bambine un tempo
nella penombra del bosco

E’ lontano è il tempo di Pagnacco, rimane nel sonno: anche se profumi e colori sono vivi in una naturale eternità

Il prato

Mi porto nel sonno questo
prato dietro casa tanti
anni di pietre e spine
cespugli di vento che
s’addentra nella pelle
dove il profumo vibra
salvia rosmarino dove
discutono i gatti
dove sguardi si staccano
dal giorno ormai cresciuto
Lo porto tranquilla nel sonno
ha giurato eternità

Ed al risveglio, nel grembo della Terramadre, i sensi, il respiro, com-mossi dall’energia generata da “un batter d’ali” che sfiora un ramo, si fanno parola: udita, accolta “di bocca in bocca” ; non solo portatrice di senso – pietra e canto – ma potente strumento di condivisione: “amore così grande/che può

Sinonimi

Sufficiente
un batter d’ali
sul ramo appena sfiorato
che sempre più lento
oscilla nel fiorire di luce
mattutina rivendica energia
come chioma cresce
nutrita di respiro
dapprima non so darle un nome
intrisa com’è di commozione
si teme come un bacio che poi
può fare male ma ecco
si sta creando calma una parola
della stessa stoffa
così pietra e canto
va di bocca in bocca
uguale si ritrova all’energia
convoca gli dèi la tenebra
apre alla tenebra la parola
un amore così grande
che può

Leda Palma, nata a Pagnacco (Udine), vive a Roma. Fin da giovanissima ha svolto attività teatrale – con importanti compagnie – radiofonica e televisiva; nei ruoli di attrice, autrice, conduttrice e regista. Da molti anni si occupa di poesia e di narrativa ed è presente in numerose riviste culturali e quotidiani.
Ha pubblicato per la poesia: Ho ripiegato l’alba (Tracce); I rami fatti cima (Fermenti); Tibet degli ultimi(La nuova Base); Il tuo corpo elettrico (Campanotto) ; ed altre.
Per la prosa: Rose novelle (Fermenti); i Saggi: Perché recitano così bene e 1968/1978 Donne e attrici (nel volume Niente come prima, a cura di Marina Giovannelli, KV ed.)

Leda Palma, La precisione del faro, La Vita Felice, Milano, 2016

Maurizio Rossi

http://www.poetidelparco.it/9_1386_La-precisione-del-faro-di-Leda-Palma.html

20.10.2016

Se permettete, inizierò dall’inizio, ovvero dal titolo di quest’ultima fatica letteraria di Leda Palma, La precisione del faro, che riverbera una figura piena di fascino, di immagini e richiami, il cui vero senso, statene certi, non sarà magari quello che io cercherò di dirvi, ma piuttosto quello celato dietro l’enigmatico sorriso dell’autrice.
A tutti è accaduto di pensare che il titolo di un libro ne riassuma il contenuto, o almeno ne rappresenti la chiave ermeneutica principe per svelarne il contenuto, ammenocchè – succede, succede – quel titolo non sia messo lì apposta dall’editor per acchiappare l’ingenuo lettore.
Con La precisione del faro , per me, la strada si fa decisamente in salita, ma proprio per questo più invitante. Non che manchino gli esempli di fari in letteratura, anche se di una loro precisione, non se ne parla proprio, almeno per quanto io ne sappia. Ad esempio, Italo Svevo, per simboleggiatre i due momenti della costruzione del fatto letterario, amava parlare della poetica ” del faro e della formica”, intendendo col primo termine il momento dell’ispirazione, dell’illuminazione dell’artista, mentre con la laboriosa formica intendeva il momento del catulliano “cartis laboriosis” e del “labor limae”, ovvero della laboriosa stesura e della limatura continua del testo, alla ricerca della perfezione metrica e stilistica, del continuo “essere sul verso” dell’artista. E mi scuserete, per carità di lettori, la citazione un poco dotta, ma penso proprio che quel “laboriosis” e quel “labor limae” sia stato un continuum nella elaborazione poetica del lavoro poetico di Leda Palma.
Non solo. Quello della formica è il tempo soprattutto della raccolta, della sedimentazione e della scrittura in versi dei ricordi, dei sentimenti, delle sensazioni, delle illuminazioni e delle visioni: del materiale incandescente, insomma, che concorre a formare il dettato poetico. Così il faro, con la sua luce, che è poi l’interna ispirazione del poeta, illumina con precisione, dà la direzione giusta anche alla nostra poetessa per concorrere a costruire la sua trama letteraria, camminando lungo la strada di poesia. A dire il vero, Donato Di Stasi, che ha steso – scusate l’inciampo linguistico – la prefazione a questo libro così denso di realtà e richiami significanti, ha dato del faro una immagine certamente più letteraria delle mie nugae, ovvero bagatelle, cose da poco (ci sono cascato di nuovo) delle “mearum ineptiarum”, delle mie inezie di cui vi ho detto a proposito del faro, sentenziando che ” la precisione del faro”, con i suoi bagliori, vince le tenebre della post-modernità “: Ma scusate: anche io volevo dire la mia.
Sempre a proposito del faro, potremmo anche ricordare il famoso romanzo di Virginia Wolf, Gita al faro,ma credetemi: in questo caso l’aggancio con il testo di Leda proprio non sono in grado di trovarlo: qui il faro è un simbolo, un obiettivo difficile da raggiungere. E per il faro de hoc satis, potrà bastare, dicevano i latini.
Ma io aggiungo anche che, per sua natura, il faro è realtà di duplice contezza: da una parte è legato alla terra del lontano, alla frontiera, all’altrove, al punto di non ritorno tra cielo e mare e, dall’altra, al ritorno, a quel sentimento di nostalgia di chi aspettava il ritorno che gli antichi chiamavano nostos.
E come dimenticare che il faro è legato, legatissimo al tòpos del viaggio, fisico o simbolico che sia. Qui ho scomodato Ungaretti, e cercherò di farla breve, ma mi tentano le tante corrispondenze tra il poeta di Allegria di naufragi e de Il porto sepolto, la cui prima edizione fu pubblicata a Udine nel 1916, e la poetessa di Pagnacco.Il viaggio poetico di Ungaretti si svolse, per così dire, lungo una direttrice verticale, con un ascendere che è l’errare dell’anima nel suo tentativo – che mai demorde – di salire ai cieli della purezza, dell’essenza dello spirito nel suo valore assoluto, ormai liberato dalle scorie dell’effimero e del materiale; un passaggio, questo, che mi tenta anche per il viaggio poetico di Palma. Così per Ungaretti, come per Palma, oserei dire che proprio per questa ragione la loro poesia, come suprema forma di canto, può venire eletta come necessario conseguimento di tale rito di purificazione.
Ed è proprio la cifra del viaggio a connotare l’intero dettato poetico di questo – ma non solo di questo – libro di Leda Palma, anche se non mi azzardo a dire di lei, come di sè stesso disse Ungaretti, “Mi sento in balia del viaggio”. No, questo no. Il viaggio di Leda non è, come si legge nel libro, solo quell’intenso e fascinoso viaggio in India che ti può cambiare la vita, dove “le donne creano soli/ con un lembo del sari/ stretto fra i denti”, ma un vero e proprio itinerario che si sviluppa a partire dall’interiorità propria e che attraversa quella del mondo intero, vivendo esperienze che portano fino alla luce della rivelazione, all’unità cosmica del tutto.
Non è però, quello di Leda, il viaggio di Ulisse, quel viaggio che ha segnato profondamente la cultura dell’umanità occidentale, come aveva sostenuto il filosofo francese Emmanuel Lévinas, secondo il quale l’avventura del viaggio dell’Odisseo altro non sarebbe stata se non un ritorno alla sua “isola natale”. Ma allora perché ho citato Lévinas? Perché ci fornisce una chiave anche per la lettura del viaggio di Leda, quando contrappone al mito del ritorno di Ulisse, come figura del pensiero nomadico, che è proprio della nostra poetessa, e che muove dal même all’autre, quella del patriarca Abramo, che lascia la sua patria per una terra sconosciuta.
Col suo nomadismo esistenziale e poetico, l’autrice, in questo libro, ci avverte di una grande verità. Il nostro rapporto con il mondo – ci dice – prima di essere una rapporto con le cose è un rapporto con l’altro; è un rapporto che purtroppo la tradizione metafisica occidentale ha occultato, cercando di assorbire l’altro al sé, spogliandolo della sua alterità, e facendo del proprio io la misura, la pietra di paragone universale.
Leda, invece, di questo rapporto ne fa vita quotidiana. E per far questo c’è bisogno del viaggio, per recuperare, con l’alterità, un rapporto completo con l’umanità, una unità con il cosmo intero.
Il suo è un viaggio complesso, a volte catartico, tra persone, avvenimenti, sentimenti, illuminazioni e provocazioni collegato da otto suggestive sezioni che raccolgono esperienze d’infanzia scandita dal fuoco, dalla neve, dalle prime scoperte e dalle prime ribellioni, ma anche da “oscure sacrestie / e preti laidi vecchi”; da esperienze di forte empatia con persone ammalate, proclamate con affascinanti illuminazioni ossimoriche:” Scopro un quasi nulla evangelico / nel corridoio intorno / a scandire la grandezza della vita”, Son versi di grande caratura e bellezza, quasi èclats improvvisi che ti prendono al cuore, come quel ” non sente il suolo / farsi orrizzonte”, quando racconta di un amico suicida.
Di verso in verso, di sorpresa in sorpresa, scopriamo il mondo di un viaggio esistenziale, ma anche fisico, che nell’India ritrova la “Terra Madre”, mentre nella sezione intitolata “Congedo della viaggiatrice di passo”incontra tante umanità dolenti nella Palestina, nel Meditteraneo dei profughi, nell’uomo che la ” la voce della tua carestia/ sul palmo della mano”.
E’ un libro intensissimo, profondo, a tratti quasi sacrale questo La percezione del faro, da meditare, più che da leggere, da ritornarci spesso sopra per cogliere un verso, una intuizione, una illuminazione. E senza spaventarsi per la difficoltà dell’incontro con il verso libero, che Leda Palma costruisce con grande sapienza e abilità, creando una musicalità inusitata per questi tempi.
Verso libero: se mi lasciate ancora un minuto, vi darò due dritte. La liberazione delle forme poetiche ha prodotto, con la sua irreversibilità, un proliferare di tecniche individuali così che i poeti autentici – e costei è una di quelli – sono stati indotti a produrre da sé, testo per testo, leggi fondamentali assai più necessarie e vincolanti di quelle imposte dai metri tradizionali.
Verso libero: è un calco del francese vers libre, che si caratterizza, ad esempio, per la perdita di funzione della rima e per la mescolanza di versi, diciamo così, canonici e non canonici. Ciò che conta, anche in questo testo di Leda, è che la metrica libera produce, nella dimensione di chi riceve e di chi interpreta il testo, un grado altissimo di rimotivazione complessiva, una risonanza singolare dei singoli eventi ed elementi metrici, e dà respiro nuovo ai rapporti tra ritmo e metro, attribuendo un ruolo assai radicale a una figura che rende più dinamico il discorso: l’enjambement, l’inarcatura, che separa metricamente ( collocandone uno alla fine di un verso e l’altro all’inizio di quello successivo), due lessemi: non spaventatevi, non si tratta altro che di due parole sintatticamente vincolate.
L’inarcatura – siamo anche noi sciovinisti come i francesi – nella metrica libera, come è quella di Leda Palma, è un segnale inequivocabile, e talvolta unico, di poeticità e, aggiungo, per dare maggior valore a questa scelta dell’autrice, è molto più difficile scrivere versi liberi che secondo calchi metrici predeterminati.

Devo terminare, e lo faccio con una citazione presa a prestito dal poeta Mohammad Jalâudin, in arte Rumi, viaggiatore esule in varie località dell’Iran, autore di un Poema spirituale, un classico del pensiero sufista turco orientale: “Di là delle idee, di là di ciò che è giusto e ingiusto c’è un luogo: incontriamoci là”. Questo non è un luogo fisico: è il luogo della poesia E’ un luogo che Leda Palma conosce molto bene: incontriamoci là.

Roberto Iacovissi

Poesia. Se c’è in effetti qui un canto disteso (di Stasi) è probabilmente in forza di una classicità che trova alcuni momenti formali, come le quartine o certi ritmi conseguenti, ma presto la versificazione mostra nuove ipotesi e strutture adeguate al significato del testo o al suo contenuto. Si svela l’ipocrisia di stagioni ritenute intoccabili e questo ci pone di fronte a una coscienza ancor più acuta e intesa a svelare i risvolti di ciò che solo si immagina.

In questo e anche nelle relazioni o nessi che la parola esplica sta la modernità di una scrittura da scoprire e assimilare nella sua profondità oltre la parola. È pur vero che sussistono livelli figurati, ma sono sempre tradotti con tale originalità da supporre il tentativo di proiettarsi in avanzate soluzioni linguistiche: “È una falce la campana | un silenzio di spilli un corpo | braccato la sua voce” — superfluo in tal caso dimostrare come la germinazione delle idee, secondo una logica individuale, crea quasi un continuum che ora elide e ora unisce i vari significanti. C’è poi la presenza della morte, al punto che scrivere versi appare un esercizio di fronte al vuoto, eppure la volontà vince ciò che sembra invincibile.

La raccolta si chiude con Cammino di Maya, in pratica un poemetto che si snoda con attimi magmatici e bagliori creativi in grado di riassumere le varie parti di una realtà che spesso tende a sfuggire di fronte al faro e alla fragilità del sogno.

Luciano Nanni

Ne La precisione del faro ovvero Tat Twam Asi Leda Palma dimostra di possedere anche in poesia (ella è pure attrice) una non comune capacità di immedesimazione. L’autrice riesce a cogliere concretamente, infatti, il dolore che colpisce tutti quanti, e quindi non soltanto gli esseri umani, bensì ogni anima, ogni creatura.

La ricchezza di sfumature di pensiero, scavando in zone d’ombra, e la varietà di stati d’animo vengono colte nella loro interezza, ricorrendo frequentemente all’uso dell’enjambement, e con molteplici soluzioni. Non può passare inosservata «una malinconia che / subito si scioglie se mi ravvivi / la nuca con un bacio», poiché «il tragitto contiene / come le prove di una recita / dove il pensiero cresce in vista / di una Prima trionfale / d’esistenza».

Le origini friulane della poetessa gettano le premesse del racconto in versi, rese ancor più pregne di significato con l’allontanamento dalla sua terra: «Sono nata accanto alle campane» … «Appollaiata al focolare lucevo di geloni».

La poesia è il mezzo per assorbire l’essenza di ogni aspetto del mondo reale, non una via di fuga o un universo parallelo inattaccabile: «Tutto // sta in una poesia spingono / parole prendile saldi alfabeti / d’acciaio smuovono sogni lontano / da tutto questo buio».

Leda Palma vorrebbe poter riuscire a vincere le barriere dell’incomunicabilità, per superare quelle contraddizioni e quei fraintendimenti che generano lo iato che divide, separa e allontana. Rammentando un “Barbone” incontrato un giorno per strada, ella ammette: «sapessi andare oltre i margini / dirti senza paura vieni fratello // dentro il mio verso vieni / la tua casa è qui la cuccia / della tua ombra e mia».

La scrittura nasce da un’intima ferita e da una sensazione di abbandono, da un bisogno di aprirsi nei confronti del prossimo, per ritrovare la parte più profonda e autentica di se stessi: «Questa lama di foglio / mi sanguina da un dito / voglio renderla braciere / voce che sconfina» … «capire il perché» … «scrivere un mastice che faccia / da riparo». E può capitare che si abbia «D’improvviso / voglia di cambiare foglio / quello successivo un’altra vita». Alla ricerca di quello che accomuna.

La precisione del faro esige onestà, quindi non si può indugiare e adagiarsi su facili luoghi comuni, soprattutto trattando argomenti spinosi come la malattia e la morte: «Da un numero sul letto» … «al tailleur che più ti dona / scarpe in tinta a piedi nudi no / nell’albergo di Dio». Occorre perseguire una spiritualità autentica, sulla scia della partecipazione, immaginandosi calati nel ruolo dell’Altro: «le vesti // non strappatemi del cielo solo / l’immenso è quieto ricordate suore / Ricordate lo specchio che vi sputa / in faccia E ridete prive di mistero // Cadranno montagne oltre la luna».

E non si può cancellare una «Infanzia di menzogne / non cucita di ripari / d’un soffio d’anima / oscure sacrestie / di preti laidi vecchi / corvi le parole eppure / il respiro era fiamma all’altare / un bisturi eterno le campane» … «durava anni un giorno / le ginocchia piegate / nel disarmo di ali».

Non in ogni circostanza possiamo disporre di un faro e fare affidamento sulla sua precisione. Si consuma l’esistenza accumulando esperienze, ma non sempre il proprio vissuto è d’aiuto nell’affrontare le quotidiane difficoltà: in “Estate” «Sbaglia strada il pettirosso» e in “Ogni primo mattino della terra” «Accade che una rondine dimentichi / la scienza del volo si scagli sul vetro / imprima l’anima di tenebre come / un trapasso voluto» (questi segmenti di versi ci rammentano “La colomba”, di cui canta Sergio Endrigo).

Svariate pagine de La precisione del faro risultano disseminate di spine, in attesa di altre spine. Persino le margherite sono state «macchiate di nero olio», di nero oblio, e talvolta la forza del ricordo tramuta in morso che lacera l’anima.

L’India occupa un posto privilegiato in questo libro, come nella vita dell’autrice: «Due anime / appoggiate al vento / di una faglia / negli occhi l’ostaggio / della fame / alla destra un bimbo / a sinistra un cane»; «cani grondano / ferite salpano corvi trucioli di morte / nell’invece dei mantra onde di pace» … «non so come spegnere / gli occhi nei vicoli di bimbe violate» …«eppure / questa terra non pesa sul mio cielo». Nelle pagine dedicate all’India, la capacità di immedesimazione di Leda Palma tocca le vette più alte.

Anche se la luna ignora l’identità della poetessa e i legami possono allentarsi o spezzarsi, indissolubile rimane la rete che unisce tutti i destini, verso l’ineludibile meta finale: «Gelso nascondi il tuo / pianto al mio i commiati ai miei / feroci d’incertezze non fraintendermi / sono qui linea che ci congiunge / a una vita maggiore».

L’ombra del tempo minaccia ogni esistenza. Ma porta anche luce di senso.

Infatti, risulta ancora possibile «indurre il faro / a cucire più luce dentro il mare».

Claudia Manuela Turco

La poesia: per una connessione tra sé e sé, tra sé e le cose, tra sé e le persone, in una atmosfera di vissuto e di desideri, di luci ed ombre, dentro il senso del probabile faro. Niente è perduto, tutto è ancora salvabile se il sentimento va a sostenere parole e canto. Leda Palma continua la sua ricerca in versi verso il non finito, verso ciò che, liberato dalla falsità della superficie più eclatante, stringe la possibilità di durare oltre l’evidenza.

E può essere la memoria come l’amicizia, la pietas come la vicinanza, il riconoscersi uguali in una sorte esistenziale e l’accettazione del tempo con tutti i suoi antefatti e postfatti. «Chiudo gli occhi per dare all’indistinto / un dilavare d’onda che/ serve al respiro alimento uniforme / all’universo nell’andare come / nel tornare dalle radici all’infinito / che ci spetta dal disordine al riconoscere / nel mistero agisce del silenzio / s’annulla piano ecco si fa cosmo / ogni ramo morto di me / luce» (Meditazione, p. 81).

Bisogna entrare nelle singole poesie de La precisione del faro, farsi assorbire dal ritmo-metro e dal suo andamento classico, per liberarne il “canto” che le distingue: canto alla vita nelle righe che la fanno tale, quasi che sia in ogni caso dono, in ogni caso riga che conduce con precisione al faro, pur nel desiderio di cambiare a volte il foglio dell’assenza, «l’audacia d’ogni foglio che verrà» (“Presenza”, p. 86), o la storia come tale.

La cadenza dalla dimensione classica, una caratteristica della scrittura di Leda Palma, dialoga senza soluzione di continuità con la modernità linguistica: i due registri si amalgamano in ogni testo. La resa è un afflato poetico che mira, sempre, a non elidersi e a non elidere il significato, anzi a fissarlo nel suo primo gradino aperto ai successivi, come una luce di faro, appunto, che nell’intermittenza si fa sempre più vicina e chiara.

Ma, allora, c’è una vita per chi naviga? È quella tra l’andare e la luce lontana, tra la temperie e l’approdo non vicinissimo («…poterti / dire ti cercavo e mi hai trovato», “Il foglio”, p. 15), tra i giorni presenti e l’incontro con la malattia e la morte. La coscienza, allora, mentre si va, mentre si vive. Come nel poemetto “Cammino di Maya” a chiusura de La precisione del faro: quasi canto e controcanto (lo si potrebbe sentire a teatro, a mio parere) in cui illuminazione e suo contrario, luce e buio, elementi di interiorità e notazioni paesaggistiche (il Friuli, origine e amore infinito di Leda Palma, Assisi, l’Oriente) si snodano a formare il cammino di una formazione e, quindi, di una consistenza onirica e reale, definita e alonata tanto da rimandare ad un faro da sempre intravisto e, nello stesso tempo, distante e preciso. Ma baluginante.

Maria Lenti

La precisione del faro ovvero Tat twam asi, recita il titolo intero della raccolta. «Tat twam asi», traducibile dal sanscrito come «ciò che sei», dà conto delle reali intenzioni dell’autrice, che si muove in questo libro corposo ma assai colloquiale – nella versificazione talvolta prosastica, talvolta assai studiata ma senza mai venir meno alla sua necessità di raccontarsi – come se stesse scrivendo da un punto ben preciso della vita, sospeso davanti al mare oscuro, ma guardando allo stesso tempo in due diverse direzioni, proprio come un faro che, ruotando il suo fascio di luce, illumini di volta in volta diversi punti nel buio. Così la raccolta si muove su più piani, fisici e temporali. Fra l’infanzia a Pagnacco: «Sono nata accanto alle campane/ ai Tuoi piedi scalzi di deserto/ mordendo la tua veste bianca di latte» e lo scenario futuro rappresentato dalla malattia, dagli ospedali e dall’inevitabile morte. Fra Roma e l’India, a cui è dedicata la sezione intitolata Terramadre: «s’annulla piano ecco si fa cosmo/ ogni ramo morto di me/ luce». Fra le molte nascite scrupolosamente segnate e i tanti addii agli amici, ai proprio cari, fino al lungo canto finale che riassume il senso di questo cammino in parte definitivo in parte ancora aperto e per questo incerto e insieme entusiasmante. Ne viene fuori una lunga interrogazione piena di spiritualità e al tempo stesso di timori, in cui convivono due culture a confronto: l’europea e l’indiana, sul senso dell’esistenza su cui ineluttabile si spande un profondissimo senso di morte incombente, che talvolta lascia arresi e pacificati, altre sgomenti, altre ancora perturba persino gli attimi di maggiore serenità. Ma: «nessuno le chiede dove rimbalza/ la morte buona buona l’ha adagiata/ sul garbuglio di remi a indurre il faro/ a cucire più luce dentro il mare».

Antonio Lillo

1) In quale realtà familiare e ambientale è cresciuta e si è formata culturalmente?

Famiglia piccolissimo-borghese di 5 persone(genitori e tre sorelle) che arrancava con un solo stipendio, quello del padre impiegato comunale, in un paese contadino, povero, di poche anime, dove l’orto era sudore e trepidazione, l’italiano una lingua da imparare a scuola. Borgo, parrocchia, lo spazio domestico. Tre figlie, tre maestre, sosteneva mio padre e ha dato tutto se stesso perché potessimo diplomarci. L’università un sogno, troppe tasse; o lavori e studi, altrimenti fai la maestra in un paesino qualunque di montagna. Per le donne l’unica via d’uscita dalla casa oltre al matrimonio. Questa prospettiva non mi si addiceva, io amavo il teatro, a scuola mi chiamavano sempre a leggere poesie, da dove scaturiva questa passione, mistero. Forte il desiderio di evadere, di fuggire da quella realtà sonnolenta e arcaica. Per fortuna a Udine esisteva un nutrito e preparato
gruppo teatrale, riuscii a infilarmi e lì mise radici forti e stabili la mia professione futura che divise il mio paese in due, metà mi bollò, l’altra metà rimase a guardare. Primo contratto con il Teatro Stabile di Bolzano ovvero L’Ultimo Carro di Tespi, diretto da Fantasio Piccoli. Mi addentrai nella poesia durante una lettura al premio Cittadella dove conobbi e diedero inizio al mio –corpo a corpo- con essa, Luciano Erba, Sergio Solmi, Bino Rebellato e altri.

2) Cosa del suoi Friuli nativo è rimasto nella sua attività lavorativa a Roma e in che modo riesce a recuperare la linfa vitale che ha nutrito la sua giovinezza quando torna al suo paese?

La lingua! Una volta lontana dal mio Friuli ho iniziato ad amare il friulano, quel friulano di cui mi vergognavo quando, per le scuole medie e superiori, ero costretta a percorrere in bicicletta quei chilometri che separavano Udine, la città, da un mondo contadino guardato con diffidenza e superiorità. A Udine si parlava l’italiano o l’udinese che io detestavo. Così il friulano rimaneva
circoscritto alla famiglia e al paese. Oltrepassati i confini si trasformava all’istante in italiano, a volte storpiato.
A Roma mi impegnai allora a moltiplicare in teatro e in radio le letture di Pasolini , Leonardo Zanier, Bartolini, Giacomini, tutte rigorosamente in friulano e io ero l’unica a conoscerlo alla perfezione. Poi naturalmente Padre Turoldo di cui ricordo volentieri una lettura scenica insieme ad Achille Millo. Scrissi anche per la radio un sceneggiato e un radiodramma dedicati al Friuli.
I miei numerosi ritorni in Friuli erano ritorni soprattutto alla natura, ai campi, agli alberi, ai torrenti, alle albe e ai tramonti che come lampi mi folgoravano e ancora oggi mi trascinano, per quel che ne è rimasto, in un mondo di silenzio, di purezza, un mondo che si va via via perdendo, con cui stabilire una relazione sensoriale e profondamente spirituale. Il paesaggio è un essere vivo.

3) Le sue esperienze teatrali quanto hanno inciso sulla sua produzione letteraria e viceversa?

Al teatro ho dedicato la vita, è la mia passione, ma fra teatro e poesia non vedo distinzioni così
nette. Nel teatro le parole sono in azione. Posso vederle come profumo, colore, come entrata, uscita, come fatto fisico. Così la poesia, l’etimologia greca di poesia è –azione. Infatti in poesia la parola deve essere densa, contenere azione appunto. Si sente dire spesso: questa è una cosa poetica, non c’entra niente con la realtà mentre la poesia è quanto di più concreto ci possa essere.
In teatro prendo a prestito parole d’altri, conflitti d’altri. In poesia le parole sono mie, è la mia coscienza a discorrere. Teatro e poesia sono momenti di verità e tutti e due contribuiscono a uno scavo interiore, a scandagliare i propri abissi. E’ un tornare a casa dentro di sé, dentro la propria interiorità. Cercare un punto di contatto con il proprio sé, con il divino che è in noi. Comunque si alimentano a vicenda.

4) Quali sono i poeti, classici o contemporanei, che più influenzano la sua scrittura in versi?

Naturalmente cerco di non farmi influenzare ma va da sé che certi poeti li abbiamo dentro, ce li portiamo ovunque, li respiriamo. Da ragazzina ero perdutamente innamorata di Leopardi e lo sono ancora. Ma ne ho aggiunti altri come Ungaretti, Quasimodo e ai nostri giorni o quasi: Marina Cvetaeva, Dickinson, Amelia Rosselli, Ripellino…

5) A quale personaggio che ha interpretato sul palcoscenico o in televisione si sente più vicina, e ritiene di dover esprimere più riconoscenza?

In un primo tempo ho pensato a Giulia, la protagonista giovane di “Mercadet, l’affarista di Balzac che ho interpretato a teatro insieme a Tino Buazzelli, poi, riflettendo, ho scelto un insieme di personaggi che ho raccolto sotto il titolo ORE 9 DEL SILENZIO . L’ora del terremoto in Friuli 40 anni fa. Questo monologo l’ho recitato nel ventennale di questo tremendo sisma e tutti i personaggi da me interpretati erano reali, vivi e morti, donne e uomini, tutti accomunati da questo orrore senza fine. Spunti per un richiamo al dialogo, a una comune riflessione sui valori etici e spirituali, per ritrovare un senso di umanità e di universale solidarietà, di giustizia sociale, rispetto dei diritti e dei doveri nei confronti di tutte le creature. Questa la condizione per continuare a parlare di umanità.