Niente come prima
Il passaggio del ’68 tra storia e memoria

Edizioni Kappa Vu

IntroduzioneRecensioni
di Marina Giovannelli

Questo libro raccoglie riflessioni e memorie di donne oggi residenti nella regione Friuli Venezia Giulia, in vario modo impegnate culturalmente, la cui età varia fra i 70 e i 45 anni, ed ha origine nella proposta di riandare al 1968 e dintorni che rivolsi ad alcune amiche alla fine del 2005 in seguito alla pressione crescente che sentivo (e sento) sull’autonomia del pensare e fare delle donne, che aveva peraltro già innescato un generale movimento di ripresa con le manifestazioni femministe programmate per il 14 gennaio 2006 a Roma e a Milano. La proposta fu accolta con slancio: condividevamo i timori per la campagna conservatrice in atto, per le continue ingerenze clericali, sentivamo che tornare ai giorni di quella rivoluzione dei valori e del costume avvenuta nel periodo indicato, se non era sufficiente per ricostruire una storia organica, tantomeno per elaborare interpretazioni di un momento ancora così dibattuto, poteva tuttavia essere utile per ripensare se stesse, rievocare un clima, confrontarlo con il presente, promuovere incontri e discussioni, attivare consapevolezza.
Poche delle invitate alla scrittura non accettarono la proposta, alcune perché il ricordo di quei lontani giorni, esaltanti ma duri, genera un dolore ancora indicibile, altre perché non si riconoscevano nelle premesse iniziali.
Il presupposto comune consisteva nel ritenere il ’68 non un anno, ma un periodo di durata variabile, di cui ciascuna delle scriventi aveva avuto nozione in un momento individuabile soggettivamente, ma che aveva indotto in ognuna mutamenti radicali nella propria esistenza.
Che il ’68 sia da considerarsi un “passaggio” è un dato storiografico ormai acquisito, anche se variano i termini temporali prescelti, oscillando le premesse dai primi anni sessanta per alcuni, al periodo delle prime occupazioni accademiche del ’66-’67 per altri, per finire comunque alla fine degli anni settanta con l’imbuto della lotta armata.
L’altro dato che veniva implicitamente accolto nell’ adesione al progetto riguardava la propria collocazione all’interno, se non d’una istanza femminista, d’una volontà di riflessione sul movimento delle donne, così come si era andato formando negli anni settanta e modificando negli anni successivi, e sulla influenza nei percorsi personali.
Per il resto l’assoluta libertà di ciascuna nell’esprimersi preludeva a una lettura comparata da rinviare all’esito delle testimonianze stesse.
Da queste emerge, già ad una prima lettura, una straordinaria ricchezza di notizie, temi, osservazioni, spunti critici, nodi irrisolti, esposti con una sorta di appassionata urgenza , a conferma dell’attualità politica delle questioni proposte.
L’altra innegabile evidenza riguarda la distanza, in queste pagine, di un generico femminile poiché in esse risuonano voci di donne, ciascuna nella propria singolare e differenziata unicità, a riprova che la differenza di genere incrocia molteplici differenze, anche se non tutte qui rappresentate.
Esse rimandano in primo luogo ad appartenenze generazionali e sociali: noi donne nate alla fine degli anni trenta e nella prima metà dei quaranta eravamo molto diverse da quelle nate attorno al ’50, perché l’esser cresciute durante o subito dopo la guerra e l’aver ricevuto un condizionamento educativo molto forte in senso tradizionale avevano determinato un’influenza a fatica disattivabile. , scrive a questo proposito Mariangela Modolo.
Di più, nel ’68 ci trovavamo ad avere un’età allora cruciale per il matrimonio e la maternità, cosicché questi eventi ci rendevano “distratte”, spettatrici più o meno turbate piuttosto che attrici, come testimonia lo straniamento così ben narrato da Ludovica Cantarutti. Sulla nostra generazione premeva, senza che ne fossimo consapevoli, il peso di quel “problema senza nome” di cui aveva già scritto Betty Friedan in The femminine Mystique nel 1963 (tradotto in Italia nel ’64), che poche però allora avevamo letto, (“avanzava una infelicità profonda nella mia parte di donna che aveva compiuto la sua missione per la specie”, ricorda Marta Mauro), eppure anche in noi stava maturando una tensione verso il cambiamento che si rivelerà nelle scelte esistenziali e professionali successive.
Il contesto ambientale e familiare con l’educazione che ne deriva, influì sul grado e modalità di ricezione del movimento durante il “ciclo breve dell’insorgenza”, dall’adesione incondizionata della giovanissima Barbara Vuano all’immediatamente critica “estraneità partecipante” di Luisa Accati, passando per tutte le sfumature intermedie.
Di comune invece, nella varietà dei luoghi dove venne vissuta quella stagione divampante, da Messina a Trieste e Udine, da Torino a Padova, da Roma a Genova, e “Tra Parigi e Zagabria”, c’è lo stesso clima diffuso di ottimismo, di euforica speranza, e in tutte era convinto il senso d’appartenenza al mondo intero, così che al mondo intero si rivolgevano attenzione e volontà di cambiamento sostenute da un generale e forte senso di responsabilità. Ne derivava desiderio di prender parola – “Dappertutto discorsi pubblici, dibattiti, proclami, annunci”, testimonia Melita Richter da Parigi – e di far parte del progetto generale, vissuto con quel sentimento di “felicità” che avverte chi si senta impegnato nella fondazione di una nuova polis, in una atmosfera trans-nazionale cui da tempo aveva contribuito la cultura.
Ricorrono infatti nei testi delle autrici i nomi degli stessi scrittori, gli stessi titoli di libri, le stesse canzoni, ma soprattutto emerge un convincimento profondo e forse ingenuo, fatto di fiducia nella possibilità di forzare la politica e la società nella direzione dell’equità, insieme agli altri ed altre, studenti e operai.
Comune è anche, per molte, la consapevolezza che il “passaggio” del ’68, inteso come sopra indicato, ha segnato una frattura tra un prima e un dopo, innescando un processo di mutamento così radicale che da quella soglia si è aperta per ogni donna –almeno nel mondo occidentale- la libertà che oggi è sotto gli occhi di tutti, che significa possibilità di raccontare un romanzo di formazione femminile non più a senso unico, secondo quanto era stato fino ad allora salvo eccezioni alla regola, ma articolato nelle più varie direzioni pensabili, come per i maschi era da sempre.
Se la ribellione all’autoritarismo, inteso come rifiuto del primato dell’apparato accademico, partitico, burocratico in genere, era il fondamento primo dello slancio rivoluzionario del movimento studentesco, e quindi patrimonio condiviso di tutti e di tutte- Gabriella Musetti cita uno slogan allora molto diffuso: “Vietato vietare”- si deve dire però che l’”orfanità” cercata e gridata dai gruppi nelle piazze non si accompagna nella maggior parte delle scriventi al rifiuto della famiglia d’origine in molte anzi si converte nel riconoscimento di un padre consapevole e nella valorizzazione della figura della madre (non del materno) vista con occhi nuovi come soggetto capace di pensiero e di autonomia, se pur dotata di strategie ancora tradizionali, come le “matriarche” di Vilia Candido o la madre elusiva di Pina Raso, e nell’individuazione di una precorritrice “linea matrilineare” da parte di Alessandra Kersevan. A questa nuova autorevolezza femminile si accompagna la scoperta della possibile amicizia fra donne (al posto della tradizionale concorrenza). “Amiche-madri, amiche-figlie, amiche-sorelle, amiche-amate”, scrive Aldina De Stefano, mentre più avanti si delineerà per alcune un percorso che conduce al pensiero della differenza e per Elvia Franco in modo diretto alla comunità di Diotima.
Ma l’approccio al movimento è segnato inizialmente dalla leadership maschile e da un avvicinamento alle pratiche discorsive caratteristiche della cultura cosiddetta “universale”, con grandi difficoltà per le giovani donne, e mi riferisco soprattutto a quelle nate attorno al ’50 che vivevano da protagoniste, al massimo dell’energia fisica e mentale, l’esperienza della politica partecipata, come è qui documentato in molte eloquenti pagine.
L’essere riuscite a cogliere le radici dell’impasse e l’aver respinto come non proprio il metodo praticato costituisce l’avvio a quel taglio personale che ciascuna immetterà nella realizzazione di sé all’interno dell’attività che ha scelto di svolgere.
Infatti se “il germe della discussione programmatica” –precisa definizione di Cristina Benussi – sarà comune a uomini e donne e segnerà un modo altro di stare al mondo, impedendo l’accettazione di stereotipi e stimolando la ricerca autonoma, sarà caratteristica più propriamente, anche se non esclusivamente, femminile coniugare l’aspetto teorico di ripensamento dell’esistente con l’”agire” in senso arendtiano, ovvero l’immettere forza di iniziativa politica nella prassi, superando la tradizionale dicotomia tra il “pensare” e il “fare” e mostrando possibilità di cittadinanza diretta anche al di là delle forme strettamente istituzionali e amministrative.
Anche laddove entrerà nei luoghi da sempre maschili del “potere” la voce di queste donne si dimostrerà dissonante, critica, e di conseguenza non sempre apprezzata seppure nuova e fattiva. Ne sono esempi evidentissimi le esperienze di Leda Palma nel sindacato degli attori a Roma, di Pina Raso nel sindacato Cigl Scuola a Udine, di Maria Carminati, alla prima conferenza nazionale delle donne comuniste a Milano (’73), quando individuava la dimensione di “terzo lavoro” per l’attività politica, segnalandola come compresente con quella “produttiva” e “domestica”, di Roberto Corbellini che scopre dall’interno del Psi la distanza delle donne dalla competizione: “Ci sentivamo testimoni di un evento necessitante, di un pensiero globale, di diritti universali […] e non volevamo sporcarci con la bassa contrattazione di potere”
Il distacco dalla cultura emancipatoria sarà per molte una presa di coscienza profonda e perciò irreversibile, anche se costituirà un’eredità difficile ciascuna donna deve faticare con le proprie forze per approdare a certe risoluzioni e la varietà di percorso di ciascuna delle scriventi ne costituisce un indubbio elemento di prova.
Le più giovani, “seguendo il filo delle amicizie” e coinvolte nei modi generosi dell’età, conoscono la politica attiva che significava “avviarsi a un severo apprendistato, assumere delle responsabilità nei confronti del gruppo, farsi carico di un lavoro politico che era meticolosamente organizzato ed equamente ripartito” (Annalisa Comuzzi).
Persino chi allora si “ustionò” nell’esperienza diretta, maturò un proprio itinerario di crescita sul quale fondare la consapevolezza attuale.
Nel corso del tempo, sul chiudersi del decennio, muta lo scenario, mentre la situazione italiana precipita verso la “catastrofe” della violenza, ma ancora c’è spazio per rinnovato coinvolgimento e impegno in situazioni particolari, come avviene in Friuli in occasione della tragedia del terremoto (’76) che avvia un ripensamento della storia e cultura locale, e promuove la richiesta dell’istituzione dell’Università a Udine, tra rivendicazione di autonomia e sospetti di localismo, situazione di cui Antonella Sbuelz ripropone lucidamente gli aspetti.
Oggi alcune sottopongono la “rivolta” del ’68 a una critica severa che sottolinea le già allora leggibili contraddizioni e i silenzi colpevoli, altre ad una rilettura che non nega le “ombre” ma riconosce le “luci”, altre ancora a una valutazione sostanzialmente positiva o quantomeno indulgente, se non altro per la possibilità sperimentata per la prima volta di costituire una “comunità assoluta” di relazioni fra uguali inedita e, almeno all’inizio, propositiva.
Quanto è stato detto finora non esaurisce la ricchezza dei temi affrontati in queste pagine, in cui si fa riferimento ad aspetti particolari che richiederebbero spazi ben più ampi per esaurire un dibattito indubbiamente da riprendere e approfondire, o che al contrario sono già stati studiati altrove in modo specifico.
Si tratta ad esempio del linguaggio, sia quello usato dai giovani del ’68 letto come elemento di distinzione dal mondo adulto oppure come rivelatore simbolico di caratteri fondamentali ma sotto traccia del movimento, sia come indagine non ancora compiuta sulla parola letteraria femminile, “portatrice di stimmate” (Benussi) e priva di riconoscimento nel mondo accademico, o degli effetti della “liberazione sessuale” sulle giovani donne di quegli anni, con quanto di taciuto e perfino di imposto vi era in essa, poiché il discorso sul “corpo” era ancora tutto da farsi, sia come sua conoscenza che come sua gestione, dal sesso alla maternità.
Si pone inoltre in certe pagine il tema a tutt’oggi non sufficientemente indagato della violenza, in sé e nel rapporto fra violenza privata e pubblica, sulla cui equazione è aperto il dibattito.
Su tutti gli altri si ripropone con insistenza in quasi tutti gli scritti un argomento di interesse sostanziale, che costituisce l’interrogazione politico-filosofica per eccellenza, e cioè se (e come) l’analisi marxiana sulla dialettica di classe, da cui la maggioranza delle scriventi muove nell’avvicinarsi al movimento, sia rimasta poi la linea guida di interpretazione del mondo nei tempi successivi e come (e se) la si conciliò con il femminismo.
L’ultima osservazione riguarda la scelta dei titoli dei propri interventi da parte delle autrici: dopo aver tutte ripercorso la propria esperienza nella piena interiorizzazione di quella rivendicazione condivisa allora, e ancor oggi funzionante “il personale è politico”, perciò senza remore o falsi pudori, nella piena assunzione delle proprie responsabilità e nella consapevolezza delle proprie conquiste, hanno siglato gli scritti con parole che segnano fortemente una distanza dal ’68 e dagli anni immediatamente successivi. Alcuni titoli rinviano alla favola, al sogno, al mito, comunque a un “c’era una volta” trascorso e perduto. Questa percezione di lontananza che non è di tipo temporale ma allude al disincanto, si accompagna alla preoccupazione espressa da molte rispetto il presente, a causa dell’orizzonte privo di aperture dei giovani d’oggi, della pochezza della società attuale che non offre risorse e nemmeno speranze.
Eppure queste pagine, che in molti casi non si limitano a ricordare e tendono a proporsi come strumento per riprendere l’azione, seppure in modi diversi e forse ancora da individuare, dimostrano quanta energia più o meno latente sia pronta a sprigionarsi se incanalata in modi adeguati. Non chiederemo a queste pagine più di quanto possano dire, molti temi accennati incalzano un approfondimento di tipo storico o sociologico, ma non si può negare che il potenziale politico in esse presente sia altissimo, e che la proposta implicita delle autrici avvii verso la continuazione della riflessione sul passato insieme al desiderio di intervenire nel presente, per se stesse e per coinvolgere le altre.

IL GAZZETTINO – giovedì 12 aprile 2007
IL SESSANTOTTO FRIULANO VISTO DALLA PARTE DELLE DONNE

“Ed è stata una stagione che ha stretto dentro di sé tutte le giovinezze del mondo”.
Poetica Maria Carminati, che azzarda: “…forse una comunità globale ante litteram”.
E’ una delle testimonianze raccolte nel libro NIENTE COME PRIMA. IL PASSAGGIO DEL ’68 TRA STORIA E MEMORIA, a cura di Marina Giovannelli per le edizioni Kappa Vu. E’ la voce di donne fra i 70 e i 45 anni che hanno vissuto quel periodo da spettatrici o da attrici, da “sorelle minori” o da protagoniste in prima fila, che hanno visto la propria vita rovesciata come un guanto. A parlare sono Luisa Accati, Cristina Benussi, Vilia Candido, Ludovica Cantarutti, Maria Carminati, Annalisa Comuzzi, Roberta Corbellini, Aldina Di Stefano, Elvia Franco, Marina Giovannelli, Alessandra Kersevan, Marta Mauro, Mariangela Modolo, Gabriella Musetti, Leda Palma, Pina Raso, Melita Richter, Antonella Sbuelz, Barbara Vuano.
E’ un film conosciuto. Chi ha come primo ricordo politico l’impatto con l’immagine in bianco e nero dell’invasione di Praga, fa il suo duro apprendistato in Lotta comunista, poi collabora con la Filologica ed è attiva con le Donne in nero (Annalisa Comuzzi): militanti sempre. E chi nel ’68 aspetta il secondo figlio e trova sempre la facoltà occupata, non può sostenere esami, ma scopre la libertà di pensiero, “butta il reggiseno a balconcino” in pattumiera e partecipa alle manifestazioni per il divorzio e l’aborto (Mariangela Modolo): come seppellire gli anni ’50 una volta per tutte e ripartire.
Chi lascia tutto nel 1982 prima del tracollo del Psi, “me ne ero andata al gruppo maschile che di fatto aveva utilizzato e sprecato la capacità di lavoro di decine di noi”, (Roberta Corbellino): tradite. “Noi come donne non avremo dovuto opporci all’enfasi della violenza guerrigliera? Non avremmo dovuto con lucidità analizzare quello che stava accadendo e come stava accadendo?”
(Leda Palma): autocritica sulla deriva post-’68. Deluse? No, qualche ustione – come dice Marina Giovannelli – c’è stata. Ma la vitalità e la consapevolezza non si è persa. Leggere le biografie finali per credere.

Assunta Portesi

Dai tempi della contestazione studentesca e culturale del ’68 son trascorsi circa quarant’anni, ma ogni sua rievocazione e analisi individuale o collettiva, pubblica o privata, non manca mai di suscitare contrasti e approvazioni, esaltazioni e critiche feroci. In ogni caso, su almeno un’affermazione si raggiunge l’universalità dei consensi: quel periodo ha segnato in modo indelebile la memoria (e talora la soggettività) di quanti hanno vissuto le sue giornate in prima persona, lasciandosi coinvolgere da quel clima del quale ognuno, a qualsiasi titolo vi partecipasse, si sentì davvero protagonista.
NIENTE COME PRIMA, il passaggio del ’68 fra storia e memoria è una pubblicazione della Kappa Vu nella quale la contestazione sessantottina è ricordata mediante numerosi interventi brevi da donne che vollero esserne partecipi, spesso pagando un prezzo onerosissimo in seno alla famiglia e nel lavoro.Uno sguardo al femminile su quegli eventi, non parziale né sessista, dove il Friuli, al quale molte autrici sono o erano legate, costituisce quasi un pretesto per iniziare la narrazione che percorre l’intero periodo e riesamina alcuni sviluppi di esso.
Sono storie personali, che muovono spesso dalla vita familiare, che svelano come l’esperienza individuale di queste donne si sia stemperata in una collettività di pensiero e azione vasta e complessa, ma incapace di conculcare le opinioni singole e priva di pretese egemoniche, che favoriva le espansioni interiori piuttosto che le passività acritiche. Le annotazioni redatte in prima persona dalle autrici, vanno ben oltre il limitarsi a conseguire il “protagonismo paritario”; mostrano quanto profonde furono, al contrario, le loro intime elaborazioni del ruolo della donna nella politica e nella lotta di classe, quali furono le cause lontane della loro individuale presa di coscienza, che seppe oltrepassare la conquista di un mero riconoscimento da parte della società –che stava alla finestra- oppure –che contava-.
Una leggenda metropolitana vuole che il tipico ruolo femminile negli eventi del ’68 sia stato quello di “angelo del ciclostile”. Completamente diversa è stata la realtà: le donne furono protagoniste di quei giorni e di quei fatti tanto quanto gli uomini; anzi le loro lotte si svolsero su almeno due fronti, quello dell’intervento politico diretto e quello della presa di coscienza del proprio ruolo sociale e storico. Non mancano in questo libro cammei d’epoca e icone musicali, citazioni di pensatori alla moda, noticine colorite e memorie spicciole di gioventù, rivisitate con un autoironico senno di poi. Solamente a tratti, come accade in questo genere di opere, il racconto si tinge di spleen, ma non si intristisce mai, come accade in simili storie, in crepuscolari e rancorosi rituali celebrativi della Grande Occasione Perduta.
Non è un caso che tutte le autrici dei contributi siano oggi scrittrici affermate, saggiste o persone saldamente impegnate ai vertici di importanti organismi d’intervento sociale. I giorni del ’68 hanno lasciato tracce profonde e irreversibili; l’impegno profuso allora si è mutato in capacità creative, metodi di indagine, desiderio di azione a vantaggio della collettività. Una scuola vera e propria, dunque, che non è affatto durata lo spazio d’un mattino, come affermano persino molti ex-sessantottini frustrati e delusi. Se si vuol cercare un limite, lo si può individuare nella mancata risposta alla domanda: “Come poté finire tutto ciò?”, un quesito che può rivelarsi bruciante perché implica la scomoda percezione di un”dopo” che, a dir di molti, non fu affatto migliore, dal punto di vista culturale, sociale e civile del “prima” e del “durante”.
L’introduzione di Marina Giovannelli mette a fuoco la traccia comune alle narrazioni, individuabile nello sforzo di discernere ciò che è rimasto di quei tempi perché fruibile e ciò che è stato dimenticato in quanto pleonastico o contradditorio. Le testimonianze, tra le quali troviamo quelle di Melita Richter, Annalisa Comuzzi, Vilia Candido e Leda Palma portano molto spesso il baricentro della narrazione fuori dal Friuli, evidenziando il carattere transnazionale del movimento del ’68 che, esploso nelle università statunitensi, dilagò in Francia e poi in tutta Europa.

Gino Spoleni

INTERVENTO CASA INTERNAZIONALE DELLA DONNA

Il titolo del libro, Niente come prima, allude e rimanda al cambiamento, alle profonde trasformazioni che hanno attraversato la società di allora. Ma è soprattutto un libro di memorie che rimanda a quanto è cambiato nel modo di pensare, nell’immaginario, nei rapporti e nelle scelte di vita.
Ci sono molti modi di parlare del ’68, c’è il lavoro degli storici che ricostruiscono il contesto di allora, la svolta del paese verso la modernità. Si trattava di un paese nel quale il boom economico aveva lasciato dietro di sé contraddizioni e problemi non risolti: l’esaurirsi della breve stagione di riforme aveva lasciato insoddisfatte le richieste di rinnovamento che venivano da una società in trasformazione.

…In molte memorie si parla del ’68 “come educazione politica e culturale insieme”, va ricordato infatti il forte disagio verso le forme rituali della cultura, espresso anche dalle contestazioni promosse da scrittori e registi nei confronti dei principali premi letterari e dei festival del cinema. Leda Palma ci parla qui del teatro, delle lotte sindacali ma anche delle trasformazioni culturali, del teatro di ricerca e di sperimentazione, momenti importanti –come lei ci dice- per “portare il teatro fuori dai circuiti canonici, in ‘luoghi non deputati’, unendolo a una profonda riflessione sul ruolo dell’attore nella società”.

Annabella Gioia